Forse sarà un gioco, ma sicuramente “L’arte è un tesoro che va lucidato ogni giorno”.Questa la frase chiave che riassume la seconda inaugurazione della mostra d’arte contemporanea Artisti dialoganti – Germogli d’arte “L’Arte che unisce”, avvenuta sabato 14 dicembre 2025 a Palazzo Verbania. L’esposizione, sviluppata in due fasi (la prima delle quali si è tenuta dal 29 novembre al 13 dicembre), ha presentato opere che “dialogano e si rinnovano nel tempo, alcune delle quali si alterneranno offrendo al pubblico un percorso vivo e mutevole”.
Al tavolo dei relatori il fotografo Ferruccio Pavesi e Tiziana Zanetti, ricercatrice dell’Istituto di Antropologia per la Cultura della Famiglia e della Persona; studiosa del diritto dei beni culturali, in particolare riguardo alle questioni relative alla circolazione internazionale delle opere d’arte. In qualità di responsabile scientifica di progetti di studio e documentazione relativi ai beni culturali, specialmente immateriali, la prof.ssa si occupa di progetti di educazione e di formazione relativi alla tutela (penale) del patrimonio storico-artistico.
«Non si tratta di una replica del primo momento espositivo, ma di un altro momento vitale di una mostra che, fin dalla sua progettazione, ha scelto il concetto di “molteplicità” come modalità di presentazione». Non ripetizione, ma ampliamento, dunque, di un percorso condiviso che restituisce visibilità e attenzione in forma viva e diretta. Una mostra che permette un’immersione a più livelli e in momenti differenti a chi la visita, lasciando alle emozioni primarie, quelle affettive, il compito dell’incanto, per poi lasciare spazio ad una curiosità di tipo più razionale, che permette di incontrare nuovi autori, o di approfondire la conoscenza di altri.
Questi sono da considerarsi solo personalissimi e parziali appunti “emozionali” e non la descrizione ufficiale e sistematica di un evento culturale; “un dialogo nato attraverso la materia e il colore”; un viaggio a ritroso alla riscoperta di frammenti sparsi di vita che non erano andati persi, ma semplicemente depositati in un angolo della memoria, in attesa del momento opportuno per tornare a galla, come il ritrovarsi di fronte ai “fossili contemporanei” di Giuliana Consilvio, della quale due opere grafiche acquistate moltissimi anni fa tuttora vegliano sul mio sonno inquieto, rendendolo più sereno.
È stato scoprire che la schizofrenia è vedere l’arte in maniera differente, ammirando l’opera “Terra Santa” del Centro di riabilitazione psichiatrica Atelier Somsart, l’Associazione di Promozione Sociale che opera nell’ambito del disagio psichico “i cui soci si ri-trovano grazie al linguaggio terapeutico dell’arte e della cultura nelle loro svariate manifestazioni per prendersi cura di sé”: un collage nel quale un’antica Natività del 1700 a colori campeggia sull o sfondo in bianco/nero di drammatiche scene di guerra.
E lo stesso relatore, il fotografo Ferruccio Pavesi nel suo doppio ruolo di artista dialogante, così ha descritto la trasformazione del lago di Comabbio in fragili ed eterei filamenti in bianco/nero. «Fiori di loto ormai secchi che emergono dall’acqua come segni grafici sospesi nello spazio bianco della nebbia; le loro sagome le geometrie leggere e irregolari trasformando il lago in una superficie astratta ed educando l’anima alle vibrazioni emotive della bellezza».
«Il materiale nelle mie mani è il legno – ha aggiunto lo scultore Eduardo Brocca Toletti – il quale possiede dentro di sé tutte le fattezze della vita trasformando i materiali inerti in opere d’arte».
E poi c’
è Palazzo Verbania, nato nel 1905 in veste liberty come Kursaal, ossia salone per ristorante, cene, feste, balli e banchetti e successivamente (nel 1927) ampliato dallo stesso Giuseppe Petrolo, che lo aveva progettato, mutandone il nome e modificandone l’aspetto estetico. Dopo aver cessato l’attività nel 1971, quattro anni più tardi il Verbania fu adibito a centro culturale, con la prima mostra dedicata a Bernardino Luini.
Dal 2019, dopo una campagna di restauro conservativo, ospita, accanto a esposizioni a rotazione e convegni, gli archivi del poeta Vittorio Sereni e dello scrittore Piero Chiara. «Luogo caro e deputato, fondamentale, che uno scrittore deve avere per poter scrivere. Venire a Luino e non passare di qui significa perdere un luogo dell’anima e quando un artista lo mostra attraverso l’arte, noi non riusciamo più a vederlo senza quel riferimento». Ed è esattamente così, perché «lavorare in un archivio letterario è un’esperienza forte: accedere a tutti i documenti che raccontano la vita personale intima e segreta di una persona significa entrare nella sua stessa vita, magari con l’idea di una riparazione». Così fecero i Lions, acquistando e donando al comune di Luino l’archivio di Vittorio Sereni, ricco di edizioni rarissime, postille, dediche, inserti. Ecco allora che lo studioso diventa erede di tutti quei documenti, prendendo su di sé l’incarico di procedere e “traghettare di riva in riva anime purganti“, come aveva scritto Giovanni Testori pensando all’Angelo nocchiero immaginato da Dante nel Canto II del Purgatorio.
«Non basta dire che questo luogo è bello anche al buio: occorre fare in modo che questo luogo attiri tutto ciò che è artistico. Ringrazio Carolina De Vittori per i suoi collegamenti tra la bellezza del luogo e le altre presentate, che speriamo di portare sempre più spesso a palazzo Verbania». Ha sottolineatoil sindaco Enrico Bianchi. Sì, perché, come ha sottolineato Tiziana Zanetti, se vogliamo conoscere Luino non possiamo prescindere da una tessitura che intreccia il palazzo con la collezione Chiara/Sereni e gli archivi che ospitano i loro documenti: «Ciò che distingue un semplice edificio rispetto ad un luogo che è anche culturale è il continuo dialogo tra passato e presente, come a Palazzo Verbania, con le sue stratificazioni in dialogo continuo con il paesaggio e con la comunità».
«Nella linea del tempo di palazzo Verbania, questi 120 anni hanno cambiato la sua funzione nelle forme, ma non nella sostanza. – ha proseguito Piero Lotti – Continua a restare un luogo con forte funzione pubblica nata su un grande sviluppo turistico originato dalla nascita della ferrovia del Gottardo nel 1882».
Noi, nel frattempo, visitando la mostra e i luoghi, non abbiamo potuto fare a meno di ricordare frammenti del racconto di Piero Chiara “Era mio padre quel Gesù Bambino”, in cui, ancora una volta, l’autore si cala nei panni di un bambino dagli occhi sgranati dalla meraviglia: “Ogni anno, verso la metà dicembre, mio padre, che quando ero bambino aveva già quasi cinquant’anni, andava nei boschi sul far della sera a tagliare un alberello, lo portava a casa al primo buio e lo drizzava sopra un profondo ripiano della nostra cucina, che liberava prima d’ogni ingombro. Avvicinandosi il Natale, sera per sera si dava da fare intorno all’albero, tirando dietro di sé una tenda che mi impediva di seguire il suo lavoro… Quando l’albero era fatto, tornava nei boschi a raccogliere un mezzo sacco di muschio, col quale componeva un bel tappeto su tutto il ripiano, che poi popolava di pecorelle, asini e pastori ritagliati da un foglio e incollati su sagome di cartone. Ai piedi dell’albero, in una capanna di paglia, metteva un bambolotto di celluloide con le braccia alzate, più grosso delle due statuine di gesso di san Giuseppe e della Madonna che gli stavano accanto e perfino dell’asino e del bue. In primo piano, posava sul muschio uno zampone di Modena simile a un avambraccio nerboruto, che sembrava il personaggio più importante del presepio. Lavorava ogni sera su quella specie di palcoscenico, quasi sempre in ginocchio perché il vano non era alto, dopo aver tirato la tenda alle sue spalle perché nessuno vedesse i suoi armeggiamenti…”
















