Danza Slava

Premio speciale della libreria “Tuttilibri di Savona”
Concorso nazionale di narrativa “Voci di donne” (1996)
sul tema annuale “Sulle ali della musica”

“Ta-ra-taratà/ta-ra-taratà/tara-tattattattattà/tara-tattattattattà…”

E’ dal mio risveglio, che mi frulla in testa quel brano musicale che Bruno Bozzetto aveva reso così buffo nel suo film a cartoni animati “Allegro non troppo” e, quel che è peggio, questa mattina non ho proprio voglia di andare a scuola.
Vorrei soltanto ridere, giocare, fare una gita… Insomma: qualsiasi cosa, piuttosto che dovermi sgolare, comeal solito, per ottenere un po’ di attenzione daquegli scalmanati che mi stanno aspettando laggiù, nel quartiere “ghetto” di questa cittadina così pulita, sana, lavoratrice del “profondo Nord” in cui abito da qualche anno. E’ proprio una splendida mattina di febbraio, come solo su questo lago è possibile vedere, col cielo terso e una brezza frizzante che fa increspare la superficie dell’acqua, riempiendola di splendide “ochette” di spuma bianca, che si incorrono dalla sponda svizzera a quella lombarda per sfuggire al freddo delle montagne venendosi a rifugiare in questo clima più morbido e dolce, nel quale il profumo della legna che arde ancora nei camini si fonde con il profumo di qualche mimosa precoce, che già sta fiorendo su qualche pendio più soleggiato.
Dunque questo “Ta-ta-taratà…” mi sta ancora perseguitando quando arrivo a scuola ed è con un certo sforzo che mi spoglio di quest’aria un po’ svagata e distratta, da Colombina impertinente, che ho indossato questa mattina, per rivestirmi dell’uniforme seria e professionale da maestra, che uso abitualmente nell’esercizio delle mie funzioni.
“Driiinnn!” Mi trascino lungo il corridoio mentre, con la coda dell’occhio intravvedo il pesante portone richiudersi alle miespalle e l’impareggiabile Patrizia, giunonica “collaboratrice scolastica”, come viene definita ora, per contratto, la nostra bidella, mi apostrofa con la solita frase: “Sempre carica di roba, lei!” Ed io, rassegnata, nascondendo come sempre una sbuffata, mentre alzo gli occhi al cielo, recito la solita litania: “Eh già, è il destino di noi specialisti, con tanti alunni e tante scuole…” “A proposito: oggi i suoi disperati sembrano più scalmanati del solito, forse sentono la primavera!” Prosegue lei sardonica, stringendo gli occhietti porcini ed abbassando appena la voce, come a svelarmi un segreto incoffessabile. Oddio, ci mancava solo questa: è venerdì, oggi è il mio turno di assistenza alla mensa, è una bella giornata, non ho voglia di stare chiusa qui dentro, ho la testa piena di coriandoli e gli alunni sentono la primavera!
L’ho sempre detto, io: odio i bambini, il loro diritto di manifestare i loro umori, i loro sentimenti, il loro bisogno d’amore, la loro violenza nell’imporre a noi adulti la loro irrequietezza, che si manifesta sempre nei momenti meno indicati, nel modo più fragoroso e, soprattutto, come per un’epidemia improvvisa, in grado di propagarsi con la velocità del fulmine a tutti gli altri, una volta contagiato il primo soggetto. Beh, pazienza: domani è sabatoe, se ci saranno ancora le “ochette”, potrò navigare come mi pare sul tranquillo mare della fantasia, cullata solo da questa intrigante melodia che mi accompagna incessantemente da stamattina: “Ta-ra-taratà/Ta-ra-taratà…”
Come mi aspettavo, non appena la campanella annuncia il termine delle lezioni, ecco i miei “bisonti” scaraventarsi giù dalle scale, uno addosso all’altro, in una gara frenetica per chi arriverà peer primo al portone, facendosi immancabilmente acciuffare dall’erculea Patrizia, alla quale, in queste occasioni, spuntano perfino un paio di baffoni da gendarme.
“E voi della mensa” tuono intanto dal corridoio “andate im-me-dia-ta-men-te a lavarvi le mani!” tanto lo sappiamo tutti che questo è l’ipocrito rito di tutti i venerdì: le belve vanno in bagno, se ne stanno un po’ lì a schizzarsi d’acqua bagnandosi grembiuli, felpe e calzoni, poi, quando risentono il mio urlo belluino, mi corrono incontro, sfoderando il loro sorriso più angelico e bugiardo, invitandomi a guardare le loro mani, per verificare come, l’energica strofinata, quei segnacci di penna e pennarello rosso non se ne siano proprio andati dalle loro manine.
Il pranzo si consuma come al solito, tra gli sghignazzi e la confusione di chi vuole li bis di patate e di chi proprio non ne vuol sapere di mangiare il pesce: “Dai, mangiane almeno un po’, devi ancora crescere e la giornata è ancora lunga!”  Poi mi sento improvvisamente stanca e lascio perdere: oggi ci sarà il gelato, così anche chi non ha mangiato i bastoncini di nasello potrà recuperare qualche caloria.
Prima dell’inizio delle lezioni pomeridiane li lascio sfogare in giardino: i più grandi hanno già il pallone fra i piedi, pronti ad ingaggiare la solita partita che finirà fra urla e contestazioni, col portiere insultato e spintonato dalla propria squadra per essersi distratto, favorendo gli avversari. Io intanto mi siedo sotto ai tigli ancora spogli e devo ammettere che incomincio anch’io a “sentire la primavera” perché, inprovvisamente, eccolo ancora là, quel motivetto che mi piace tanto e, mentre le note si rincorrono nella mente, scorgo un deltaplano, partito da chissà dove, che volteggia nell’aria profumata di calicanto, come un drago colorato, pronto a balzare sulle “ochette” laggiù sul lago, per divorarsele in un sol boccone. Ed è con un certo stupore che sento l mia  voce gridare: “Ragazziii!!! Ho un’idea! Che ne dite di una rappresentazione mimico-musicale da realizzare a fine anno?”
“Una rapresentazione mimo che?” Mi interrompe Sandro, il cinese, orientale “senza naso”, adottato neonato, che in classe passa il suo tempo rotolandosi per terra e sgusciando fra le sedie, a tirare le trecce alle bambine ed il codino ai maschietti con il taglio alla moda. “Quando torneremo in classe te lo spiegherò!”
Così ha vinto lui, quel “Tara-taratà” che è ormai diventato il mio incubo: vuole prendere corpo, vivere autonomamente al di fuori della mia mente, servendosi di me solo come semplice mediatore, per materializzarsi in una storia fantastica della quale quei marmocchi che tanto m’indispongono saranno gli artefici. “Dunque, ecco cosa faremo…” Ed in quattro e quattr’otto, prima ancora che possa rendermene conto, le parole scivolano dalla mia bocca rincorrendosi una dietro l’altra e vedo per la prima volta i miei “animaletti” ad occhi sgranati, mentre racconto la storia di questa melodia.
“Ma come fai a sapere che questa musica dice queste cose?” Chiede Cinzia, Pollicino della classe, ultima di sette fratelli, che, di ritorno dalle vacanze natalizie, con il tono più normale di questo mondo mi aveva detto: “Sai che la notte dell’ultimo dell’anno mio fratello è morto in un incidente? Ma la mamma non ha pianto tanto, perché è incinta di tre mesi e ha già detto che, se sarà un maschio, lo chiamerà come l’altro”. Già, in realtà non so perché ho raccontato questa storia: quella danza slava non racconta affatto una storia, tantomeno una storia di marmocchi e poi non sono sicura che possa servire a questi ragazzini, già così calpestati dalla vita da aver perso lo stupore dell’infanzia e la magia della fantasia; ma ormai l’incantesimo è incominciato, devo solo lasciarmi trasportare sulle ali del sogno e forse il miracolo accadrà…
Lavoriamo sodo durante i tre mesi che ci separano dal traguardo della nostra sfida e spesso ho la sensazione di aver sbagliato tutto. “Salvatoreee!!! Piantala di fare lo sgambetto a Consuelo!” “Maestra, guarda Sabrina! Ha fatto le boccacce a Sara!” Oddio, come rimbombano le voci in questa palestra in cui tutti urlano, si rincorrono forsennatamente, come se un incantesimo VooDoo si fosse impossessato di loro, costringendoli a questi movimenti senza senso, sospingendoli qua e là senza sentire ciò che invano tento di far loro ascoltare: “Fate attenzione! Il ritmo è questo: Tara-taratà- Tara- Taratà… Forza, ricominciamo da capo! E tu, Sandro, devi lanciare la palla delicatamente, non devi demolire il muro, stai rappresentando un bambino che sta giocando!”  Tuttaviadevo ammettere che, a poco a poco e con una punta di dispiacere da parte del lato “tutto d’un pezzo” della mia personalità, questi astuti ladri di sentimenti stanno scoprendo che mi piace ridere, saltare e ballare, costruire aquiloni e decine di gru di carta, che serviranno alla fine della nostra rappresentazione mimica. Ho progressivamente smesso di sgolarmi ed ora non devo più ripetere mille volte le stesse cose; Sandro nontira quasi più le trecce alle bambine, Mirco ha smesso di “pizzicottare” Andrea e Sabrina di fare le linguacce a Sara.
“Ma anche Fabiola avrà una parte nella rappresentazione?” Mi chiede Jonathan il perfezionista, mezzo irlandese e mezzo vagabondo. “Certo, perché no? Tutti avranno modo di esibirsi, anche lei: anzi, penso proprio che sarà il personaggio chiave di tutta la vicenda!”
Ecco, il giorno fatidico è arrivato: la buia e umida palestra è stata tirata a lucido, la giornata è soleggiata, così i personaggi potranno entrare in scena dalla porta che si apre sul giardino. I genitori sono stati fatti accomodare da un lato e già si stanno sedendo, a gruppetti, guardando timorosi e tupiti la Direttrice, che per l’occasione non ha potuto fare a meno di presentarsi qui, tutta in “ghingheri” per non sfigurare. Loro, i miei ragazzi, sono nascosti fuori, in giardino ed i loro occhi sono incollati su di me, che, seduta al centro, sul pavimento, sto per premere il pulsante che darà l’avvio al nastro registrato: saranno le mie mani a parlare, per aiutarli a ricordare tutte le fasi della storia che andremo a rappresentare.
La Direttrice chiede un momento di silenzio, poi snocciola poche parole di circostanza che nessuno ascolta… Ecco, siamo pronti, il mio cuore batte a mille e la mia mano alzata avvia il conto alla rovescia: Meno cinque, quattro, tre, due, uno… “Tara – taratà/Tara – taratà…”
E’ Sandro ad entrare per primo, tutto solo, serio e compunto come non l’ho mai visto, a scandire il ritmo della danza facendo rimbalzare il pallone sulla parete, senza perdere nemmeno un colpo; poi arrivano Sabrina ed Andrea, reggendo due enormi e coloratissimi aquiloni, con le lunghe frange di carta crespa che, con eleganza, fanno volteggiare nell’aria, prima di posarli delicatamente al centro della scena. ecco poi Consuelo, Jessica, Valerio e Jonathan con la corda, sopraggiungere saltellando col medesimo ritmo: “Tara – taratà…” E via via tutti, a piccoli gruppi, a rapprresentare tutti i bambini del mondo, con la loro voglia di sorridere, di stare insieme e di fare amicizia. Poi, a poco a poco, ogni gruppo abbandona i propri giochi; ora si prendono per mano a coppie e una dopo l’altra si roncorrono come le gocce d’acqua di una cascata, una nell’altra, una dentro l’altra, per formare un serpentone che ondeggia sinuoso fino a fermarsi dritto davanti a me. Ora, prima nelle note finali, un momento di silenzio assoluto: Le coppie sono immobili, senza respiro, con le braccia alzate a formare una galleria, dentro alla quale qualcuno sta avanzando adagio, reggendo un cesto di vimini colmo di gru di carta; le mie mani si muovono nervose a rallentare l’avanzata di Fabiola, per non anticipare la sorpresa finale, poi… “Via!!!” E la nostra “diversamente abile”, a cui o Stato dà il diritto di avere un’insegnante di sostegno, ma che nessuno ha mai visto perché il “ghetto” fa paura, rovescia sul pubblico il contenuto del cesto, guardandoci tutti, orgogliosa e trionfante.
Ma sono orgogliosa anch’io, dei miei ragazzi, e mi sta spuntando una lascimuccia nell’angolino dell’occhio, mentre mi arriva da molto lontano, come in sogno, la voce di Consuelo che raccontaal pubblico il significato della nostra storia: “Una leggenda racconta che la gru, uccello sacro in Giappone, vive mille anni e che se una persona ammalata costruisce mille gru di carta, guarirà: ecco perché gli studenti di Hiroshima hanno costituito il Club delle Mille Gru, allo scopo di aiutare i bambini a restare insieme pensando e lavorando per la pace”.
Vorrei abbracciarli e baciarmeli tutti, i mei ragazzi, ma non sono abtuata ad esternare troppo i mei sentimenti: mi bast accarezzarmeli tutti con lo sguardo, mentre, con le guance in fiamme e gli occhi lucidi, stanno immobili a ricevere la cascata di applausi che si sta rovesciando su di loro. Poi finalmente mi guardano, come per avere la conferma che è andato tutto bene e finalmente posso lasciar scendere, a ritmo di nmusica, quella lacrimuccia impertinente che ho invano cercato di trattenere: “ Tara-taratà…”


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One Response to Danza Slava

  1. Maria Assunta Mongiardo says:

    Un gradevolissimo racconto che ho letto di gusto e mi ha fatto rivivere sensazioni ed emozioni del passato

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