Primo aprile

“Con la palla” – Foto di Sergio Perozzi (1947)

…E così mi hai fatto un bel pesce d’aprile, Valentina…
Te ne sei andata in punta di piedi, nel cuore della notte, senza disturbare, sola sola…
…Sola sola… Ti avevo lasciata ieri sera alle otto, il tuo sguardo ormai non mi vedeva più…
Da giorni, ormai, non mi vedeva, anche se, forse, riconosceva la mia voce…
Non volevi più vedermi… e tuttavia mi hai donato i tre giorni più belli della mia vita… la mia vita…
Hai aspettato che potessi viverli fino in fondo, prima di andartene, così non mi sarei sentita troppo in colpa… Avrei dovuto accompagnarti, prenderti per mano… e invece sei stata tu, a lasciarmi andare… l’hai tagliato tu, quel cordone…
Dove va l’anima, quando si muore? E la tua, Valentina, dov’è? Certamente con è qui con me…
Mi hai lasciata sola, davvero, questa volta, ma non so se ora loro sono con te… il tuo Sergio, Anna, Rosa, Stefania, Giorgio…
Adesso so… Eri tu, l’angelo che ha lasciato le sue impronte sulla neve per amor mio… che mi ha lasciato commettere tutti gli errori che ho voluto, che ha sopportato il mio rancore per tutti questi anni… Eri tu… E non lo sapevo… Tu, che hai sperato fino all’ultimo che potessi tornare a casa… mentre io, per ripicca, ho preferito restare a farmi annichilire da quell’uomo triste, che a modo suo mi ama… e che, a mia volta, sto per abbandonare…
E’ troppo tardi, Valentina, troppo tardi, per tornare a casa… perché ormai non ci sei più e non posso farti contenta… Il tempo è scaduto, il tempo è scaduto…
Ora sei tornata bella come allora, nel pallore della morte… e anche la tua bocca, finalmente, non è più deformata da quella smorfia che l’agonia l’aveva costretta ad assumere…
Sei pallida, Valentina, e quegli occhi chiusi, finalmente distesi, ti danno un aspetto vagamente severo, un po’ critico…
Ti ho messo fra le mani quel piccolo rosario di filigrana d’argento che mi fu regalato tanti anni fa, per la mia prima Comunione, pochi mesi dopo che mio padre se n’era andato in cielo.
Ora tu sei laggiù, in quella stanza umida e fredda… dormi, forse sogni tua figlia, forse…
Finalmente sei con loro…forse…
Sei felice… forse…
Io me ne sto qui, seduta al sole… e scrivo… da sola, da sola, da sola…
Anche stanotte sono arrivata da sola, guidando nel buio per raggiungerti… e ti ho trovata là, in quel letto della stanza “vista lago” che la mia pietosa bugia ti aveva fratto credere luogo di convalescenza…
Ero sola, quando, con le infermiere, abbiamo iniziato a vestirti, cospargendo il tuo corpo di “acqua di rose”… Forse è stato il destino, o forse l’hanno capito… che volevo essere sola…
Il dolore non si condivide, ma si accetta in silenzio, nella stanza fredda e umida in cui una donna pallida e gelida come la morte dorme, forse sognando sua figlia…
Ora nessun altro angelo lascerà le sue impronte nella neve per amor mio, dopo Valentina…

1 aprile 2008

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L’abbandono

“Valentina” Foto di Sergio Perozzi (1949)

…Tic Tac…Tic Tac… Il cervello continua a funzionare, ma al rallentatore e qualche volta perde il ritmo… Qualche volta si spegne per 12 ore… Flash! – Buio… Flash! – Buio…
Uno sguardo, una parola, una camelia rubata, una mimosa non ricevuta…
Ogni giorno è un giorno nuovo, regalato, non preventivato… che dispensa doni inattesi, accende speranze, aiuta ad accettare il distacco che verrà… il distacco che verrà…
Intanto lei continua a tessere la sua tela…
Ragno o Penelope? Per uccidere o cucire sentimenti?…
Sia fatta la sua volontà… quella di Valentina… che ha avuto la forza di controbattere a chi la prendeva in giro… “Questa è mia figlia!”
Valentina, che oggi dormiva, sognava… e parlava…
“Milano! Sto andando…”
Dove sei, mamma?
“Sono a Milano, sto entrando in una casa, ma non so di chi è…”
In quale casa stai entrando, mamma?… Tu sei rimasta là, dove sono le tue radici, dalle quali non ti sei mai staccata… Così come non vuoi staccarti dalla vita, da tua figlia, forse, perché anche in questo momento è di lei, che ti preoccupi…
“Vai fuori di qui!”
Non mi vuoi, mamma?
“Vai a prendere un po’ d’aria…”
Hai riconosciuto la mia voce anche al telefono…
Sei sveglia, mamma?
“Sììì!”
Il distacco che verrà…
L’abbandono che verrà… dalla mia casa…
Verranno entrambi, lo so…
Quando?…Quando?…Quando?…
Forse sarebbe meglio che avvenissero contemporaneamente, perché “chiodo scaccia chiodo”…
…”Ma quattro chiodi fanno una croce” diceva Pavese…
Per amare bisogna essere in due… Bisogna essere in due…
Allora ci sono due vie praticabili, quando un amore finisce… per non restare soli…
Tuffarsi nelle distrazioni che durano lo spazio di poche ore, oppure trovare un surrogato, che integri in qualche modo la trama sfilacciata dell’anima…
Ma io continuo a guardare Valentina… e a ripensare che ha sempre fatto ciò che ha voluto, sacrificandosi solo per sua figlia… e per se stessa, perché una donna sola non è comunque in vendita…
Poi la vita le ha regalato Giorgio, che mi ha amata come un padre… che io ho amato come quello che ho perduto…
Alla fine l’avrai vinta tu, mamma… Sia fatta la tua volontà, Valentina, perché sceglierò la terza via, la solitudine… perché non posso continuare in questa “non vita”, consumando giorni e giorni inutilmente… in nome dei doveri, della morale, della gente che dice… dei rimorsi di coscienza…
Ho il diritto di scegliere la terza via… perché non posso pensare a me stessa distesa in questo stesso letto d’ospedale… a sognare, ripensare, rivivere un passato di rimpianti per ciò che non ho fatto…
“Lui ti ama molto… ti ha tolto gli occhiali… ti ha avvolta nella coperta… ha vegliato il tuo sonno sfinito…” Mi hai detto, con un filo di voce, mamma.
Ma per amare bisogna essere in due… bisogna essere in due…

13 marzo 2008 – pomeriggio

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Ercole

Ercole arrivò alla «Struttura protetta» di martedì, proprio nel giorno del mio turno di volontariato coi nonni troppo stanchi per cavarsela da soli.
Avevo appena salutato Angela, sguardo fisso e un po’ manesca, che ogni volta ripeteva all’infinito: “Io vengo a casa con te, portami a casa, per piacere!” e Giuseppina, alla quale promettevo sempre di scappare con lei all’aeroporto, per tornare a Trebisacce, mentre cercavo di convincerla a non sputare in giro le “stelline”, come faceva con caparbia determinazione ogni volta che veniva contraddetta, mentre la stavo imboccando.
Quella sera aspettavo di portare il vassoio della cena a Rosetta, uccellino implume della stanza n. 5, immobile e incapace di comunicare, se non con i suoi incredibili occhi color genziana, che alternativamente fissavano i miei e seguivano i movimenti della mano che l’imboccava, quando mi accorsi del nuovo ospite.
Se ne stava là, in fondo al salone, frastornato e diffidente, abbandonato su una sedia a rotelle e attorniato dai parenti che, con ipocrita allegria, cercavano di rendere meno amaro il distacco.
Poi, approfittando dell’imminente distribuzione della cena, figli e nipoti si infilarono in fretta il cappotto e, nel breve attimo di un batter di ciglia, si dileguarono, inghiottiti dal crepuscolo di un febbraio limpido e pungente, che increspava le gelide acque del lago che si intravedeva dalle finestre.
Posate, bicchiere e bavaglio aspettavano Ercole al tavolo di Riccardo, il suo compagno di stanza, con il quale aveva in comune la carrozzina e il fatto di essere gli unici uomini in quella voliera di nonne, che si dibattevano nella vana speranza che una porta dimenticata aperta, le restituisse ad una libertà che non avrebbero mai più potuto afferrare.
Gli unici in grado di incasellare ancora le tessere del tempo e riconoscere il luogo in cui si trovavano erano proprio loro due, ma se ne stavano addomesticati al tavolo, mangiando lentamente e scambiandosi frammenti di ricordi: Riccardo canticchiando a mezza voce “Addio mia bella addio”, Ercole sorseggiando quel dito di vino rosso che il personale ausiliario concedeva a coloro che non avevano problemi di diabete.
Quella sera la mia ostinata Giuseppina mi fece perdere più tempo del solito: la pastina non era abbastanza tiepida, o forse ero io ad aver fretta di avvicinarmi a quel tavolo laggiù?
Comunque non mi parve vero di raggiungere Riccardo, che alla mia battuta: “Posso avere l’onore di augurarti sogni d’oro?” rispondeva sempre con qualche battuta spiritosa.
Fu allora che Ercole, rimasto fino a quel momento a testa bassa, forse intimidito, o forse con l’anima su un altro pianeta, alzò lo sguardo su di me e, accennando un perfetto baciamano mi rispose: “Sono io a sentirmi onorato da tanta gentilezza”.    Me ne innamorai immediatamente.
La dolcezza della sua voce, rassegnata e tuttavia ancora disperatamente desiderosa di farsi ascoltare, la punta di orgoglio nel sollevare il capo e le spalle, a dimostrare di possedere ancora la dignità di uomo libero, mi impedì di dargli del tu e di chiamarlo subito per nome, come facevano tutti lì dentro, per evitare complicazioni di sintassi.
Ma cosa ci faceva un angelo dai capelli di bambagia in questo girone infernale, intriso della sofferenza di tutti quei fantasmi seduti contro al muro e condannati all’incomunicabilità?
Ero troppo turbata per proseguire nella conversazione, perciò salutai in fretta e me ne tornai verso casa, pensando che in fondo era stata la mia vanità a farmi avvicinare a quel nonno, così lucido da potermi far sentire gratificata nella mia missione di crocerossina al servizio della “terza età”, così si dice, perché alle soglie del terzo millennio la parola “vecchio”  appare sconveniente da usare.
“No, devi dedicare il tuo tempo a chi non ti riconosce e non ti parla, ma ripete sempre le stesse frasi come un disco rotto; a coloro che non sanno che giorno sia e sono convinte che domani arriverà il loro marito, morto tanti anni prima, per riportarle a Napoli, dove fa caldo e c’è il mare; devi dedicarti a Natalina, che ogni tanto, in un barlume di lucidità, ti chiede della sua casa e vuole sapere se è tutto in ordine e se non sia il caso di arieggiare le stanze, per togliere quell’umidità che ha fatto ammuffire le pareti là nell’angolo”. Mi ripeteva all’orecchio il mio Grillo parlante.
Così la settimana seguente mi limitai a chiedere alla suora se Ercole si stava abituando alla sua nuova vita di ospite della «Struttura protetta».
“Ha pianto tutti i giorni, ma ora non più”  Mi rispose con voce neutra. Già, perché accade sempre così: “Alcuni entrano con tanta rabbia, convinti di essere stati puniti ingiustamente e determinati nell’idea di farla pagare a tutti; altri piangono per un po’, poi si rassegnano, o meglio: si arrendono a poco a poco, finché staccano del tutto la spina e li hai persi per sempre. Puoi solo abbeverarli e concimarli come faresti con una pianta in via di estinzione, da far sopravvivere  in serra, ma niente di più”.
Mentre imboccavo Rosetta, che sembrava gradire il budino alla vaniglia con biscotto e medicina azzurra sbriciolati insieme, per confonderne il gusto amaro, continuavo a pensare ad Ercole, troppo diverso per essere condannato a quel destino inesorabile: mi convinsi che non avrei soddisfatto il mio narcisismo se, da quel momento, avessi cercato in tutti i modi di tenere desta la sua mente, facendomi raccontare la sua storia e stemperando i ricordi quando gli si fossero inumiditi gli occhi, ma incalzandolo quando mi avesse parlato delle sue avventure di ciclista.
Già, perché Ercole aveva girato il mondo, conquistando premi e medaglie di ogni genere e intervistato da tutti i giornali sportivi. “Non so più quante coppe e quanti album di fotografie conserva mio figlio… Mi hanno scritto perfino dall’America e tante donne mi facevano la corte… anche la padrona di quell’albergo di lusso, lassù in Austria, la quale mi volle donare un maglione nero, confezionato con le sue mani, che conservo ancora in un cassetto del comò. Ma io ho sempre amato soltanto mia moglie, per cinquant’anni; fu lei a salvarmi la vita quella volta che mi sono sentito male: io l’ho curata per sette anni, quando si è ammalata lei… Ma prima di Natale non so cosa sia accaduto: una notte sono caduto dal letto; lei ha chiamato i soccorsi, poi ci hanno portati qui, ma in tre giorni, forse spaventata da questo posto che non conosceva, se n’è andata e mi ha lasciato solo, con tanto rimorso e tanto male qui”. Raccontava piangendo e battendo la mano sul cuore.
Anche quella volta tornai a casa pensando a lui: come avrei desiderato sedermi su una panchina all’ombra, per farmi raccontare tutte quelle storie che nessun nonno mi aveva narrato quando ero piccola…
Passò in fretta un’altra settimana e, quando arrivò di nuovo martedì, mi precipitai alla «Struttura» con un’euforia che di solito non provavo. Arrivai nel salone con qualche minuto di anticipo, ma fui subito rapita da Angela e Gemma per la consueta passeggiata lungo il corridoio e subito dopo fu Rosetta a catturare il mio tempo, così non feci caso all’assenza del mio candido angelo.
Quando tornai nel salone mi resi conto che mancavano molte nonne, decimate dall’influenza; anche Riccardo era di malumore e, alle mie battute rispose con insofferenza, lamentandosi che “ In casa d’altri non si può fare ciò che si vuole”. “Dov’è Ercole?”  Osai finalmente chiedere. “Anche lui a letto. Lo troverai nella seconda stanza  a destra”.
Era tardi, la amica Emma era già pronta alla porta blindata, impaziente di uscire per respirare aria fresca, ma io non avrei potuto andarmene senza salutarlo, così sgattaiolai in punta di piedi verso la stanza numero 7: dormiva, i candidi batuffoli a confondersi con i cuscini, abbandonato in un sonno più vicino all’oblio che al riposo.
Rimasi ad osservarlo, per sincerarmi che respirasse ancora, poi, forse svegliato dai miei pensieri, che si rincorrevano troppo rumorosamente nella mente, aprì gli occhi e mi vide: “Chi sei? Un angelo?” Sì, proprio lui a me! Poi, colto da un’improvvisa intuizione: “Ma oggi è martedì? Allora sei tu!” Esclamò con il sollievo di colui che veniva strappato ad un incubo.
Lo baciai sulla guancia, mentre si scusava della brutta influenza che gli aveva impedito di farsi la barba. “Non importa se pungi, nonno Ercole, sei vivo e mi parli, questo soltanto mi importa” Risposi, senza rendermi conto che gli stavo dando del tu. Furono minuti lunghi un secolo e rapidi come un battito d’ali, nei quali si lamentò della sua tosse e scherzammo sul mio grembiule bianco da «volontaria», impostomi dalla suora “per motivi d’igiene”, che mi trasformava in un’improbabile dottoressa.
“Non so come fare, come potrei prolungare di un po’ questi attimi, che mi danno tanto sollievo, allontanando quel pensiero fisso che mi tormenta da qualche giorno? La prossima volta portami una pallottola!” Sussurrò cambiando improvvisamente registro.
Sperai di non aver capito: “Per farne che?” Risposi con finta indifferenza. “Sono tanto stanco, tanto stanco…” Lo stavo perdendo? Sarebbe piano piano diventato anche lui una povera crisalide, che solo la morte avrebbe trasformato in una splendida farfalla, libera di volare oltre il tempo?
Imprecai, chiedendomi quali oscuri disegni potessero indurre la Divinità che ci aveva generati a giocare così sui sentimenti degli esseri umani; ma subito dopo il mio innato senso di ribellione fece promettere a me stessa che avrei combattuto fino all’ultimo per strappare Ercole al suo destino.
“Ti prego, scommetti con me: sono convinta che il prossimo martedì ti troverò di nuovo nel salone, a tavola con Riccardo, pronti entrambi a farvi augurare sogni d’oro!” Mi parve di notare un guizzo di sfida nei suoi occhi, mentre lo stringevo con cautela, nel timore di spezzare le sue ali così fragili, poi lo salutai, stringendogli le mani, ancora un po’ calde di febbre.
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Oggi è ancora martedì: l’ho sognato tutte le notti, per combattere la Morte che me lo vuole strappare; fra poco preparerò il camice bianco da dottoressa, poi andrò a prelevare la mia amica Emma, che, come al solito, si lamenterà di non poter avere il privilegio di posteggiare nei pressi della «Struttura» e finalmente raggiungerò il mio angelo, perché lo so, avrò vinto io e la metamorfosi non si sarà compiuta. Ercole sarà là ad aspettarmi, così potremo sederci sulla panchina della fantasia, nel giardino fiorito dei ricordi più cari, per colmare entrambi la nostra anima del soffio d’amore che non conosce il tempo, gli anni, le generazioni: io a ritrovare l’infanzia rimpianta, lui a riappacificarsi con la solitudine della vecchiaia.

Luino, 25 marzo 1998

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Il distacco

Tra poco saranno tre anni… ma il tempo non scorre, non scorre… mamma…

“Valentina” Foto di Sergio Perozzi 1949

E’ da domenica che l’agenda è qui con me, in questo luogo di dolore, di disperata umanità, in cui la vita e la morte s’incontrano, qualche volta s’incrociano, sfiorandosi, o ignorandosi, senza nemmeno guardarsi negli occhi…
Da tre giorni vivo qui, soprattutto la notte, senza aver aperto una sola volta la prima pagina bianca dopo il segnalibro…
Vivo in questo limbo a-temporale, sospesa a contemplare il lago, le montagne, il cielo, di giorno, ma soprattutto nel buio… e oggi… con quel vento… e le “ochette” che viaggiano dalla montagna verso la pianura…
In questi tre giorni avrei potuto riempirle tutte, le pagine dell’agenda… di odori, di parole, di persone, di ritmi… il ritmo delle macchine… che tengono in vita, ma che, a volte, vengono sconfitte, a dispetto di tutta la tecnologia dell’Universo… perché la Signora se ne frega.. e fa ciò che vuole, sempre…
E ci sono i tuoi occhi, mamma, sempre più vuoti, persi, inespressivi, quando sono aperti… e straordinariamente in movimento quando, sotto le palpebre chiuse, sognano, vedono luoghi, colori, persone…
Forse stai sognando mio padre, la nonna, chissà… o forse stai rivivendo il passato, luoghi, colori, persone… e non una ruga solca il tuo volto, mentre sogni e rivivi… perché forse sei finalmente felice, mentre, piano piano, ti stai allontanando…da qui, da noi: da me, che non sono stata una buona figlia, per te… da questo posto, che non hai mai amato… e che io, invece, adoro e ho scelto con tutte le mie forze…
Forse stai sognando Milano, le strade, le piazze, la tua casa, che non c’è più… che è stata venduta senza che tu nemmeno te ne accorgessi…
Forse stai percorrendo quelle stesse vie, abbracciata al tuo Sergio, che durante la guerra ti videro rischiare la vita… all’ALT della pattuglia fascista… mentre in tasca nascondevate la tessera della Brigata Matteotti…
E’ stato un altro Sergio a pensare per te, in questi giorni…
“Tu fai ciò che vuoi, ma chiama un sacerdote, non negarle questa opportunità…” Ci ha pensato lui, perché io non l’avevo presa in considerazione, questa opportunità…
Vedi? Anche questo, ti avrei negato… Oltre alle carezze, ai baci, alle coccole che dispenso sempre a tutti, tranne che a te…
Lo so, che non è stata colpa tua, non è mai stata colpa tua… Il tuo uomo se n’è andato… ma non è stata colpa tua…
Ti ho odiata, per questo… ma non sei stata tu la responsabile di questo abbandono… In ogni momento della tua vita hai dovuto sopportare il mio sguardo implacabile, glaciale, pieno di odio e di rancore…
“Perchè lui e non tu? Perchè mio padre?” Ora è il tuo sguardo, che si posa su di me e non mi vede, sente la mia voce, ma non la riconosce…
In questi tre giorni persone differenti tra loro, mi hanno detto, stranamente la stessa cosa: “Ora è il momento di accompagnare…”
Devo prenderti per mano, come hai fatto tu tante volte, quando ero piccola… e accompagnarti…
Ne sarò capace? Saprò lasciarti andare, staccando la mia mano dalla tua?
Intanto, da tre giorni vivo in questo limbo, sospesa tra il cielo e il lago… che oggi sono così straordinariamente simili, color cobalto… solo le “ochette”, che corrono verso la pianura, a rivelarne la differenza… mentre tu sogni e non sai…

5 marzo 2008 – pomeriggio

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Mediterraneo

E’ la terraferma, a rabbrividire il cuore,
l’immobilità della straniera zolla,
che subisce l’impronta, ma non raccoglie
il greve fardello dell’emigrante.

Nostalgia… affondi le tue radici in mare,
che imperturbabile alterna il suo riflusso,
con la risacca sulla scogliera amara,
ultima spiaggia dell’anima ammutolita e stanca
che lentamente s’arrende alla sabbia e al sale,
ormeggiata fra i grovigli delle alghe,
che dell’esodo ascoltano lo sconsolato pianto.


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Colline del Monferrato

Muore, la stagione del sonno, che d’ombre sbiadite
s’era nutrita, mentre dalla sua tana attendeva la ferita
del nuovo verde che l’avrebbe uccisa.

Germoglierà la vite, a rivestir le colline,
Lasciandosi accarezzare dai raggi del sole,
che vestono la nuda terra di rinnovati colori.

Ascoltano, le zolle, nel silenzio del pomeriggio assolato,
La melodia dei merli, che già dalla prima luce
cantano il ritornello d’amore alla natura brulla.

Presto sarà un pigolar di nidi,
mentre dagli occhi socchiusi evapora una lacrima
di sfinita rassegnazione, senza dolore.


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Il giardino

Il giardino dei semplici sentimenti
è fiorito di bulbi che sotto la neve
hanno trovato riparo dalla morsa dell’indifferenza,
conservando la forza di germogliare
anche su un terreno arido e incolto,
per regalare la fragranza di un profumo
che nell’aria dilaga e persiste,
annunciando l’arrivo di una nuova stagione
che non avrà paura della luce del sole.


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Basta

Una sola parola, definitiva,
un punto fermo,
due sillabe scandite come
il tic tac dell’orologio,
l’oscillazione di un metronomo,
l’incedere di un passo cadenzato,
al ritmo ossessivo della marcia.

Uno stop che risuona come uno sparo,
un colpo secco, il botto di un mortaretto,
lo stridio di freni al capolinea
dell’ultima corsa di un vecchio tranvai,
spiato dai semafori intermittenti
della circonvallazione,
che invano tentano d’illuminare
una notte randagia, fradicia
di solitudine e di nostalgia.

Scende il sorriso dell’ultimo ricordo,
sale l’ombra muta dell’oblio,
occupando il sedile alle spalle del guidatore,
soffiandogli sul collo un respiro amaro,
mentre lo accompagna alla rimessa della vita,
sul binario morto dei sentimenti
traditi e calpestati,
abbandonati fra le macerie
in attesa di rottamazione.

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Lettera d’amore

T’ho parlato a lungo
nelle notti prima dei cortei,
preparandomi ad uscire furtiva
con una sciarpa rossa al collo
fingendo di andare a scuola
con il batticuore ed il respiro corto
prima di raggiungere i compagni
e stringerli per mano, marciando
contro il Potere, invocando la Libertà…

M’hai tradita tante volte,
quando m’hai fatto credere
di aver conquistato “la rossa primavera”
e invece mi hai imprigionata in una vita
da travet, col mutuo da pagare,
una paga da fame e il giardinetto da coltivare,
inchinandomi al padrone,
incurante della stagione della verde speranza
che se ne andava…

Ora non mi resta che un lenzuolo bianco,
per coprire gli ideali, morti di stenti,
venduti in cambio di un cantuccio caldo,
abbandonati nel parcheggio di un autogrill,
come cani comprati per gioco,
che richiedono troppe attenzioni per crescere
e diventare adulti…

Sono l’unica erede di una generazione di partigiani,
l’ultima che davvero si sacrificò per te, Italia,
che mi sei matrigna…
e oggi, mentre ti confesso
di aver fallito la mia missione,
lasciandoti andare alla deriva,
vorrei comunque dirti
che non potrei viverti lontana,
nonostante tutto…


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Inchiostro simpatico

Ho aperto con le dita
bagnate di pioggia
una lettera fragrante di fiori
intrecciati con parole profumate
di solitudine e di nostalgia.

Il mio è un silenzio accartocciato

su pensieri colorati d’inchiostro
simpatico, che non si svela
se non alla pazienza della fiamma,
che sa scovare tra la cenere
una favilla che possa riaccendere
un desiderio che non vuol morire.


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