Risorgimento

Il lago appare nell’immobilità di una notte gentile
recando l’onda di un passato lontano
intriso di sangue, di sacrificio e di passione.
L’improvviso ritorno di antiche melodie
allontana il silenzio colpevole
di un presente privo di luce e di futuro,
mentre con gli occhi colmi di pianto,
al ritmo della cantilena sussurrata a fior di labbra,
quelle parole ritrovano la primitiva voce,
intonata con l’emozione della prima volta…

“E la bandiera… di tre colori… sempre è stata la più bella…”

Rivedendo “In nome del Papa re” di Luigi Magni

Luino, 11 marzo 2011


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Trilogia del Carnevale – Indaco

Scende rapidamente il sole,
accarezzando il crinale dei monti intirizziti
dalle folate improvvise di un vento rabbioso
che flagella i vicoli nei quali riecheggiano
le risate delle mascherine in fuga
verso il tepore dei camini.

Sul selciato un groviglio di stelle filanti
resiste alle prime ombre della sera,
rassegnandosi alla fine della festa
prima di abbandonarsi all’incognita della notte.


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Trilogia del Carnevale – Pink

È come il filo sottile che trattiene
il palloncino tra le mani di un bambino
questa fragile speranza di respirare ancora
l’aria tersa del mattino.

È come svegliarsi dal torpore
dell’ultima notte di carnevale
tuffandosi nell’acquerello di un cielo
che si tinge di rosa con il sorriso negli occhi,
prima che l’arroganza del giorno
imponga le regole del suo gioco,
crudele e senza senso.


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Trilogia del Carnevale – Vermiglio

Un chiaroscuro di pensieri
celati da zone d’ombra,
dilaga nella mente.
Sono coriandoli leggeri,
che si depositano come neve farinosa
brinando le emozioni
in attesa della primavera.
Li dipingerò di vermiglio
affidandoli al vento
come petali di rose,
profumati di te.


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8 marzo: quale donna?

Di quale donna vogliamo parlate?

Già, la donna… E’, né più né meno, che un bambolotto.

Quando è una “lei”, allora è madre, sorella, moglie, compagna, alla quale si chiede di essere una buona “fattrice”, cuoca, infermiera, psicologa… obbediente miscela di santità timorata di Dio e fedeltà canina, disposta a subire maltrattamenti e tradimenti, in cambio della certezza che “sopra-tutto” esiste la famiglia…

Quando è “l’altra”, diventa geisha, provocante, pronta all’uso, all’orgasmo, a “stare al suo posto”; la si può trattare come una puttana, quantificando il valore delle su prestazioni; con lei non si fa l’amore, ma si “scopa”, perché c’è feeling… e se non è mai stata madre, il suo corpo vale meno di niente, perciò può essere usato e buttato, quando è venuto a noia, con la stessa semplice noncuranza con cui ci si cambia un paio di slip.

Che sia “lei” o “l’altra” è comunque una “povera” donna, condannata a partorire anche gli uomini, spesso senza riuscire ad educarli…

Questa è la pubblicità di uno yogurt…

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Acerba mimosa

All’ombra dell’acerbo fiore

che pungendo le narici

risvegliava una nuova stagione

per declinare parole d’amore,

m’inebriai del soffice giallo

che di polline leggero rivestiva

l’anima mia pronta a sbocciare

ai primi raggi di un tiepido sole.

Fu il sogno di un giorno soltanto,

poche ore furtive rubate alle fiabe

col tuo sorriso dipinto per gioco,

tra le labbra amare, socchiuse,

nel capriccio di un bacio forzato,

che la bocca mia lasciò inaridita.

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Il flusso dell’oblio

Tra le braccia dell’oblio
ho spinto la memoria dei giorni,
voltando le spalle alla vita
interrotta da uno strappo
impossibile da ricucire.

Tornerò sulle rive del torrente
in attesa che il flusso
ritorni com’era,
senza cercar nel guizzo
che sfugge all’idea
le tracce della favola
che pensavo mia
e invece non c’era.

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Ologramma di una tramonto

È il pensiero di te
che mi accompagna lungo la riva
mentre calpesto i ciottoli levigati dall’onda
che rapida si moltiplica sulla spiaggia
intirizzita nel tremore dell’Inverna.
Lo sguardo arrossisce
nell’ologramma di un tramonto inatteso
che avanza tra l’orizzonte a carboncino
e uno squarcio nella malinconia del cielo,
nella livida luce di un’altra giornata
imprigionata in un bozzolo di gelo
che non so stemperare.

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Appartamento in vendita

«TRE LOCALI PIÙ SERVIZI, CON RIPOSTIGLIO, DUE BALCONI E CANTINA, VENDESI AL QUARTO PIANO DI PALAZZO SIGNORILE CON ASCENSORE ED AMPIO GIARDINO CONDOMINIALE».
Era il giorno del suo compleanno, quando Marina decise che avrebbe venduto la casa di Milano.
Non era del tutto sua, in verità, perché una parte apparteneva ancora a sua madre Valentina, ma era ormai chiusa da anni, lasciata lì, in Stand by, in attesa che qualcuno girasse la chiave nella toppa.
Pushhhh-On sul contatore della luce
Trrr! Trrr! Trrr! Le tapparelle in alluminio laccato bianco che salgono
Sccccc! L’acqua dai rubinetti che scarica la ruggine dalle tubature…
Come una bella principessa addormentata, al primo raggio di sole anche la casa si sarebbe risvegliata, come se fosse passato soltanto qualche istante dall’ultima volta che i suoi abitanti si erano chiusi alle spalle la pesante porta blindata.
Frrrr! Clac! Clac! Clac! Clac! Cigolarono il pomello in rotazione e i cilindri d’acciaio mentre pugnalavano con quattro mandate lo stipite rinforzato in acciaio.
Valentina, da quando era rimasta sola per la seconda volta, aveva trasferito il suo corpo nella casa di villeggiatura, sul lago, dove la figlia viveva ormai da trent’anni, lasciando il suo cuore a Milano, insieme ai mobili, alla biancheria della dote, ai servizi da caffè «Mitterteich-Bavaria U.S.Zone» dono di nozze nel lontano 1951.
Marina non aveva mai capito tanta ostinazione nel voler tenere quell’appartamento, che era diventato soltanto una fonte inesauribile di spese, uno stillicidio di bollette condominiali che si sommavano a quelle del canone di luce, gas, telefono a consumo zero. Non era nemmeno riuscita a convincere la madre ad affittarlo, magari a qualcuno che aveva la necessità di stabilirsi in città per motivi di studio: “Con la metropolitana proprio di fronte, raggiungere l’Università è questione di poche fermate e non mancano certo le offerte” Ragionava Marina, ma Valentina era irremovibile: “Quella casa è il mio mausoleo! Non si sa mai: potrei, un giorno, sentirmi meglio e aver voglia di ritornarvi, anche solo per qualche giorno”.
Invece la depressione si fece più profonda, sopraggiunse anche la malattia e il languore del lago ebbe il sopravvento sulla sua fragilità e sulla sua caparbietà, tanto da ridurla in un torpore che aveva minato per sempre la volontà di mantenere ben salde le radici nella sua città.
Così Marina ne aveva approfittato: quel giorno sua madre non le aveva fatto gli auguri, ormai viveva nel silenzio di un mondo tutto suo, popolato dai fantasmi del passato. Per questo motivo aveva pensato di punirla entrando nell’agenzia immobiliare per sbarazzarsi dell’abitazione milanese.
Quando, tre mesi dopo, le telefonarono per dirle che c’era qualcuno interessato all’appartamento, Marina capì che non poteva più rimandare: doveva trovare il coraggio di rivedere la casa.
Mrrrrr: Dump! L’ascensore si fermò al quarto piano.
Clac! Clac! Clac! Clac!  E i pugnali abbandonarono lo stipite ferito.
Frrrrr! Si lamentò appena il pomello color bronzo, che, senza far resistenza, scoperchiò a Marina il vaso di Pandora del suo passato.
Dov’era il bel pavimento tirato a cera, di cui Valentina era tanto orgogliosa? Lastre opache, venature corrose dal cancro del marmo, inquietanti rigonfiamenti ne butteravano la superficie, simili al ribollire di un magma sotterraneo che, da un momento all’altro, avrebbe potuto esplodere con tutta la sua aggressività.
Il raggio di un pallido sole infiltrato mise in movimento milioni di corpuscoli: una polverosa danza di benvenuto che scomparve al Pushhhh-On che inondò di luce artificiale l’anticamera.
Fu allora che Marina li vide.
La cagnetta Laika era ancora lì, nascosta nella carrozzina delle bambole, a farsi scorazzare su e giù per la casa, finchè al grido di “Dove seeei?” allungava naso dalle tendine, tra la sorpresa e l’ilarità di tutti, che fingevano di non sapere.
C’era suo padre, con quell’unico schiaffo della sua vita, di reazione spaventata per il morso di Pippo, il lupone di nonna Giselda, che Marina aveva innervosito con una scatola di formaggini Milkana…
In sala i segni del pianoforte, sul quale le sue dita si erano affaticate durante le interminabili ore di studio, alleviate dalla fragrante ciambella di zia Giannina, che ogni venerdì, arrivava da Piola, tre fermate di Linea Verde, per passare il pomeriggio con la pronipote… anche quella sera di novembre, quando le note del Clementi si trasformarono nella stridente sirena di un’ambulanza, per strapparle il padre, senza nemmeno il tempo di un addio.
E vide sua nonna, comunista tutta d’un pezzo, che entrava in chiesa di nascosto per regalare catenine alla Madonnina sull’altare ogni volta che l’ansia e la preoccupazione per figli e nipoti le facevano dimenticare la Rivoluzione…
“Dai nonna, racconta di quando facevi «la piccinina» per la sarta e attraversavi Milano affondando gli stivali nella neve per consegnare le confezioni… Racconta di quando facevi l’operaia alla Olap, del cottimo e di quando il mio papà, quel primo maggio 1944, riuscì con il suo amico Arnaldo a far sventolare su Piazza Leonardo da Vinci quella bandiera rossa spuntata dal tetto della fabbrica… Dai, nonna, racconta…”
Ci vollero quattro mesi e tre spedizioni, per liberare l’appartamento e Valentina firmò la procura credendola una delega per l’assemblea di condominio. Libri, lenzuola di lino e servizi Mitterteich-Bavaria U.S.Zone sfollarono sul lago, i mobili, invece, furono abbandonati laggiù, all’indifferenza dei nuovi proprietari nei confronti dei ricordi che custodivano: una bambina in lacrime il giorno della Prima Comunione senza il suo papà, una giovane donna raggiante, in abito da sposa, pronta a volarsene via, convinta di aver tagliato il cordone ombelicale con la sua città…
Prima di chiudere per l’ultima volta la porta Marina smontò una seggiolina di legno scolorito: “La terrò sul mio balcone, ci appoggerò i piedi, non so…”
Poi Grrrr! Clac! Clac! Clac! Clac!
Salì in macchina senza voltarsi, senza una lacrima: “Addio, non ti vedrò mai più”.
E il suo passato svanì come una bolla di sapone al sole.

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Il ritmo del tempo

Riprendere il ritmo del tempo
che sulla tastiera della vita vuole ritrovare
la melodia da suonare con l’agilità del volo
vincendo l’attrito dell’aria pura,
in volo libero, sfruttando le correnti ascensionali
di una nuova fantasia,
dimenticando il respiro
troppo a lungo trattenuto nel rantolo
di un pensiero imploso sul marciapiede sporco
di un luogo che non ha il profumo di casa.

Peccato, per chi rimane laggiù, con le mani in tasca,
a camminare lungo medesima strada, senza meta.


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