L’eremo

Scendeva la neve, quel giorno,
coricandosi accanto al silenzio dei passi
che scivolavano lungo la corsia,
tra le arcate del chiostro
e gli alti muri scrostati dal salnitro,
avvolti dal lino frusciante
inamidato delle monache affardellate.

Nell’immobilità dell’attimo
in cui le mani giunte perdevano
la fissità della preghiera
per aprirsi ad accogliere la parola,
il tuo vagito rabbioso,
che bucava la vita.

Questo Paradiso si trova a mezz’ora da casa mia

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Drops

[cincopa AYGA3hacCAXJ]

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Happy birthday

Sarà lo scalpiccìo del tempo
coi suoi passi di gazzella
a cancellare i giorni vissuti
intensamente nel gioco sfrenato
della vita che danzando se la ride,
mentre scivolando s’allontana
sbriciolando sentimenti
impossibili da raccogliere e conservare
come una reliquia su cui pregare.
Si spegneranno, le candeline sulla torta,
con l’alito malsano della morte
travestita da beffardo pulcinella,
per ingannar lo specchio che l’osserva
e non riflette.

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In Svizzera non c’è il mare

Cesare abitava a cinque chilometri dal confine.
Amava da sempre la Svizzera perché era così pulita, ordinata, precisa, civile…
Il ’68 fu l’anno più bello della sua vita.
In tutto il mondo iniziava un’epoca di rivoluzione e di contestazione, invece lui entrava a pieno diritto nel paese dei suoi sogni: appena ventenne, stringendo tra le mani sudate per l’emozione il mitico permesso di lavoro, attraversò il valico sul lago, non per acquistare benzina, dadi di pollo e sigarette extra Monopolio, ma come lavoratore frontaliero, assunto da un’importante società leader nel settore siderurgico!
Così si lasciò alle spalle Piazza Fontana e gli anni di piombo, le lotte di classe e le conquiste sindacali, per vivere di silenzio, lavoro e cieca obbedienza, senza alzare la testa, mai!
Con il passare del tempo Cesare diventò più elvetico degli elvetici.
Ordine maniacale, azioni pianificate e orari programmati: sveglia alle 5,45 e nanna alle 22, pizza, cinema e sesso al sabato sera.
Ogni imprevisto, ogni sorpresa lo turbavano e gli facevano venire il mal di testa.
La sua fedeltà allo stabilimento era totale: la fabbrica era la sua casa, la sua famiglia, il suo unico punto di riferimento e quando, nell’estate del ‘78, il fiume impazzito se la portò via, trascinandosela nel lago, Cesare rinunciò alle ferie per correre in suo aiuto.
Passò giorni e giorni tra il fango, a recuperare, asciugandoli con il phon, disegni e progetti.
Nel cassetto della scrivania trovò perfino più di 1000 punti delle tavolette di cioccolato “Frigor”, che diligentemente accumulava da anni per avere in premio un ciondolino d’oro che avrebbe regalato alla fidanzata, ma ormai anche quelli erano irrimediabilmente perduti…
Cesare si sposò in Italia un sabato di giugno, ma non fece nemmeno il viaggio di nozze, perché la Svizzera non ammetteva simili romantiche scemenze e poi, di lì a poco avrebbe goduto dei suoi quindici giorni di ferie, perciò non si poteva proprio dire che gli venissero negati dei diritti!
La paga, grazie all’inflazione della Lira, incominciò a lievitare, fino a farlo diventare quasi benestante.
Anno dopo anno, ogni ventisette del mese, puntuale come un orologio svizzero, Cesare si fermava al confine, sempre allo stesso distributore di benzina, per cambiare i Franchi.
Si comprò un appartamento, una bella vettura sportiva e riuscì anche a risparmiare un po’, per garantirsi una certa tranquillità durante la vecchiaia.
Mai una malattia, un giorno di permesso, un ritardo, una vacanza al mare: una macchina perfetta, della quale i suoi superiori si mostravano orgogliosi e fieri.
“Guardate come siamo riusciti a plasmare quest’italiano: è felice di lavorare nove ore al giorno, non fa politica… L’abbiamo anche promosso capo reparto, così avrà l’onore di compilare la pagella annuale sulla quale segnalare alla Direzione Generale pregi e difetti dei suoi subalterni…”
Era febbraio.
Cesare da qualche tempo si era fatto crescere la barba, perché, nonostante i suoi 47 anni e qualche capello grigio, aveva mantenuto l’aspetto di un ragazzino e, data la sua posizione di responsabilità, voleva assumere un aspetto più severo.
Da qualche giorno il malcontento serpeggiava, su all’ufficio tecnico, e anche laggiù, nei reparti della produzione, italiani e svizzeri si guardavano più in cagnesco del solito.
C’era aria di crisi economica anche nella dorata Confederazione, la proprietà della ditta era passata ad una holding svizzero-tedesca e correvano voci di un’imminente ristrutturazione, che però non avrebbe toccato i “Quadri”.
Cesare, dunque, poteva stare tranquillo: era cresciuto con la fabbrica, anzi, ne era la memoria storica e aveva perfino imparato ad usare i primi PC, al contrario di tanti suoi colleghi…
Quella mattina, puntuale come sempre, arrivò in ufficio e la vide subito, dimenticata quasi per caso sulla sua scrivania.
Una busta bianca, anonima, che rifiutò di aprire fino a quando arrivò a casa e, con le mani sudate, ne strappò i lembi: “A partire da domani Lei non farà più parte della nostra Grande Famiglia e, fra un mese dalla data di oggi, le sarà interdetto l’ingresso in fabbrica, pena l’intervento della Sicurezza. La ringraziamo della sua collaborazione e le porgiamo cordiali saluti – La Direzione.”
Come sempre, i capi, nella loro infinita saggezza, avevano deciso per il meglio: Cesare non aveva figli, non aveva debiti, sua moglie faceva la maestra, era italiano, costava troppo.
Sì, doveva proprio considerarsi fortunato, perché sarebbe caduto in piedi… Pensò con le lacrime agli occhi.
Non aspettò un mese: il giorno dopo svuotò la scrivania e se ne andò.
Da allora in Svizzera non entrò più, nemmeno per fare benzina.

Questa è la storia vera di Cesare, che a distanza di tanti anni, la notte, sogna ancora la Svizzera, nonostante tutto…

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Butterfly

[cincopa AADAPcK587FR]

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Invocando il tuo nome

Ascoltami, Signore,
indica il disegno
tracciato in punta di matita
per me che non ti credo,
che non so più scorgere il tratto
sottile che segna il confine
tra il tuo regno e il nulla,
in cui galleggiano tutti i perché
dei disperati senza futuro,
abbandonati al vortice
di una tormenta implacabile,
impossibile da domare
nemmeno invocando il tuo nome…

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Incontrandoti per caso

Avrei voluto… avrei potuto…
ma ho lasciato scorrere
lo sguardo fra i tuoi capelli
senza il coraggio di osservarti in volto,
per non dover scorgere la maschera
che nasconde uno sguardo sfatto
sotto l’inutile trucco sbavato
da malinconico clown senza fantasia,
affogato nella pantomima oscena
di una commedia vissuta
senza alcuna emozione.

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Ostracismo del perdono

“The battle” – Collezione privata

Nel deserto dei sentimenti
il perdono non ha diritto d’asilo
né visto d’ingresso per ottenere
un permesso di soggiorno
a tempo indeterminato che diluisca
la densità dell’odio.

Nessuna terapia sostitutiva al dolore,
né tregua allo spasmo di un amore avvelenato
che non trova antidoto
ad una condanna a morte
senza possibilità d’appello.

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Danza Slava

Premio speciale della libreria “Tuttilibri di Savona”
Concorso nazionale di narrativa “Voci di donne” (1996)
sul tema annuale “Sulle ali della musica”

“Ta-ra-taratà/ta-ra-taratà/tara-tattattattattà/tara-tattattattattà…”

E’ dal mio risveglio, che mi frulla in testa quel brano musicale che Bruno Bozzetto aveva reso così buffo nel suo film a cartoni animati “Allegro non troppo” e, quel che è peggio, questa mattina non ho proprio voglia di andare a scuola.
Vorrei soltanto ridere, giocare, fare una gita… Insomma: qualsiasi cosa, piuttosto che dovermi sgolare, comeal solito, per ottenere un po’ di attenzione daquegli scalmanati che mi stanno aspettando laggiù, nel quartiere “ghetto” di questa cittadina così pulita, sana, lavoratrice del “profondo Nord” in cui abito da qualche anno. E’ proprio una splendida mattina di febbraio, come solo su questo lago è possibile vedere, col cielo terso e una brezza frizzante che fa increspare la superficie dell’acqua, riempiendola di splendide “ochette” di spuma bianca, che si incorrono dalla sponda svizzera a quella lombarda per sfuggire al freddo delle montagne venendosi a rifugiare in questo clima più morbido e dolce, nel quale il profumo della legna che arde ancora nei camini si fonde con il profumo di qualche mimosa precoce, che già sta fiorendo su qualche pendio più soleggiato.
Dunque questo “Ta-ta-taratà…” mi sta ancora perseguitando quando arrivo a scuola ed è con un certo sforzo che mi spoglio di quest’aria un po’ svagata e distratta, da Colombina impertinente, che ho indossato questa mattina, per rivestirmi dell’uniforme seria e professionale da maestra, che uso abitualmente nell’esercizio delle mie funzioni.
“Driiinnn!” Mi trascino lungo il corridoio mentre, con la coda dell’occhio intravvedo il pesante portone richiudersi alle miespalle e l’impareggiabile Patrizia, giunonica “collaboratrice scolastica”, come viene definita ora, per contratto, la nostra bidella, mi apostrofa con la solita frase: “Sempre carica di roba, lei!” Ed io, rassegnata, nascondendo come sempre una sbuffata, mentre alzo gli occhi al cielo, recito la solita litania: “Eh già, è il destino di noi specialisti, con tanti alunni e tante scuole…” “A proposito: oggi i suoi disperati sembrano più scalmanati del solito, forse sentono la primavera!” Prosegue lei sardonica, stringendo gli occhietti porcini ed abbassando appena la voce, come a svelarmi un segreto incoffessabile. Oddio, ci mancava solo questa: è venerdì, oggi è il mio turno di assistenza alla mensa, è una bella giornata, non ho voglia di stare chiusa qui dentro, ho la testa piena di coriandoli e gli alunni sentono la primavera!
L’ho sempre detto, io: odio i bambini, il loro diritto di manifestare i loro umori, i loro sentimenti, il loro bisogno d’amore, la loro violenza nell’imporre a noi adulti la loro irrequietezza, che si manifesta sempre nei momenti meno indicati, nel modo più fragoroso e, soprattutto, come per un’epidemia improvvisa, in grado di propagarsi con la velocità del fulmine a tutti gli altri, una volta contagiato il primo soggetto. Beh, pazienza: domani è sabatoe, se ci saranno ancora le “ochette”, potrò navigare come mi pare sul tranquillo mare della fantasia, cullata solo da questa intrigante melodia che mi accompagna incessantemente da stamattina: “Ta-ra-taratà/Ta-ra-taratà…”
Come mi aspettavo, non appena la campanella annuncia il termine delle lezioni, ecco i miei “bisonti” scaraventarsi giù dalle scale, uno addosso all’altro, in una gara frenetica per chi arriverà peer primo al portone, facendosi immancabilmente acciuffare dall’erculea Patrizia, alla quale, in queste occasioni, spuntano perfino un paio di baffoni da gendarme.
“E voi della mensa” tuono intanto dal corridoio “andate im-me-dia-ta-men-te a lavarvi le mani!” tanto lo sappiamo tutti che questo è l’ipocrito rito di tutti i venerdì: le belve vanno in bagno, se ne stanno un po’ lì a schizzarsi d’acqua bagnandosi grembiuli, felpe e calzoni, poi, quando risentono il mio urlo belluino, mi corrono incontro, sfoderando il loro sorriso più angelico e bugiardo, invitandomi a guardare le loro mani, per verificare come, l’energica strofinata, quei segnacci di penna e pennarello rosso non se ne siano proprio andati dalle loro manine.
Il pranzo si consuma come al solito, tra gli sghignazzi e la confusione di chi vuole li bis di patate e di chi proprio non ne vuol sapere di mangiare il pesce: “Dai, mangiane almeno un po’, devi ancora crescere e la giornata è ancora lunga!”  Poi mi sento improvvisamente stanca e lascio perdere: oggi ci sarà il gelato, così anche chi non ha mangiato i bastoncini di nasello potrà recuperare qualche caloria.
Prima dell’inizio delle lezioni pomeridiane li lascio sfogare in giardino: i più grandi hanno già il pallone fra i piedi, pronti ad ingaggiare la solita partita che finirà fra urla e contestazioni, col portiere insultato e spintonato dalla propria squadra per essersi distratto, favorendo gli avversari. Io intanto mi siedo sotto ai tigli ancora spogli e devo ammettere che incomincio anch’io a “sentire la primavera” perché, inprovvisamente, eccolo ancora là, quel motivetto che mi piace tanto e, mentre le note si rincorrono nella mente, scorgo un deltaplano, partito da chissà dove, che volteggia nell’aria profumata di calicanto, come un drago colorato, pronto a balzare sulle “ochette” laggiù sul lago, per divorarsele in un sol boccone. Ed è con un certo stupore che sento l mia  voce gridare: “Ragazziii!!! Ho un’idea! Che ne dite di una rappresentazione mimico-musicale da realizzare a fine anno?”
“Una rapresentazione mimo che?” Mi interrompe Sandro, il cinese, orientale “senza naso”, adottato neonato, che in classe passa il suo tempo rotolandosi per terra e sgusciando fra le sedie, a tirare le trecce alle bambine ed il codino ai maschietti con il taglio alla moda. “Quando torneremo in classe te lo spiegherò!”
Così ha vinto lui, quel “Tara-taratà” che è ormai diventato il mio incubo: vuole prendere corpo, vivere autonomamente al di fuori della mia mente, servendosi di me solo come semplice mediatore, per materializzarsi in una storia fantastica della quale quei marmocchi che tanto m’indispongono saranno gli artefici. “Dunque, ecco cosa faremo…” Ed in quattro e quattr’otto, prima ancora che possa rendermene conto, le parole scivolano dalla mia bocca rincorrendosi una dietro l’altra e vedo per la prima volta i miei “animaletti” ad occhi sgranati, mentre racconto la storia di questa melodia.
“Ma come fai a sapere che questa musica dice queste cose?” Chiede Cinzia, Pollicino della classe, ultima di sette fratelli, che, di ritorno dalle vacanze natalizie, con il tono più normale di questo mondo mi aveva detto: “Sai che la notte dell’ultimo dell’anno mio fratello è morto in un incidente? Ma la mamma non ha pianto tanto, perché è incinta di tre mesi e ha già detto che, se sarà un maschio, lo chiamerà come l’altro”. Già, in realtà non so perché ho raccontato questa storia: quella danza slava non racconta affatto una storia, tantomeno una storia di marmocchi e poi non sono sicura che possa servire a questi ragazzini, già così calpestati dalla vita da aver perso lo stupore dell’infanzia e la magia della fantasia; ma ormai l’incantesimo è incominciato, devo solo lasciarmi trasportare sulle ali del sogno e forse il miracolo accadrà…
Lavoriamo sodo durante i tre mesi che ci separano dal traguardo della nostra sfida e spesso ho la sensazione di aver sbagliato tutto. “Salvatoreee!!! Piantala di fare lo sgambetto a Consuelo!” “Maestra, guarda Sabrina! Ha fatto le boccacce a Sara!” Oddio, come rimbombano le voci in questa palestra in cui tutti urlano, si rincorrono forsennatamente, come se un incantesimo VooDoo si fosse impossessato di loro, costringendoli a questi movimenti senza senso, sospingendoli qua e là senza sentire ciò che invano tento di far loro ascoltare: “Fate attenzione! Il ritmo è questo: Tara-taratà- Tara- Taratà… Forza, ricominciamo da capo! E tu, Sandro, devi lanciare la palla delicatamente, non devi demolire il muro, stai rappresentando un bambino che sta giocando!”  Tuttaviadevo ammettere che, a poco a poco e con una punta di dispiacere da parte del lato “tutto d’un pezzo” della mia personalità, questi astuti ladri di sentimenti stanno scoprendo che mi piace ridere, saltare e ballare, costruire aquiloni e decine di gru di carta, che serviranno alla fine della nostra rappresentazione mimica. Ho progressivamente smesso di sgolarmi ed ora non devo più ripetere mille volte le stesse cose; Sandro nontira quasi più le trecce alle bambine, Mirco ha smesso di “pizzicottare” Andrea e Sabrina di fare le linguacce a Sara.
“Ma anche Fabiola avrà una parte nella rappresentazione?” Mi chiede Jonathan il perfezionista, mezzo irlandese e mezzo vagabondo. “Certo, perché no? Tutti avranno modo di esibirsi, anche lei: anzi, penso proprio che sarà il personaggio chiave di tutta la vicenda!”
Ecco, il giorno fatidico è arrivato: la buia e umida palestra è stata tirata a lucido, la giornata è soleggiata, così i personaggi potranno entrare in scena dalla porta che si apre sul giardino. I genitori sono stati fatti accomodare da un lato e già si stanno sedendo, a gruppetti, guardando timorosi e tupiti la Direttrice, che per l’occasione non ha potuto fare a meno di presentarsi qui, tutta in “ghingheri” per non sfigurare. Loro, i miei ragazzi, sono nascosti fuori, in giardino ed i loro occhi sono incollati su di me, che, seduta al centro, sul pavimento, sto per premere il pulsante che darà l’avvio al nastro registrato: saranno le mie mani a parlare, per aiutarli a ricordare tutte le fasi della storia che andremo a rappresentare.
La Direttrice chiede un momento di silenzio, poi snocciola poche parole di circostanza che nessuno ascolta… Ecco, siamo pronti, il mio cuore batte a mille e la mia mano alzata avvia il conto alla rovescia: Meno cinque, quattro, tre, due, uno… “Tara – taratà/Tara – taratà…”
E’ Sandro ad entrare per primo, tutto solo, serio e compunto come non l’ho mai visto, a scandire il ritmo della danza facendo rimbalzare il pallone sulla parete, senza perdere nemmeno un colpo; poi arrivano Sabrina ed Andrea, reggendo due enormi e coloratissimi aquiloni, con le lunghe frange di carta crespa che, con eleganza, fanno volteggiare nell’aria, prima di posarli delicatamente al centro della scena. ecco poi Consuelo, Jessica, Valerio e Jonathan con la corda, sopraggiungere saltellando col medesimo ritmo: “Tara – taratà…” E via via tutti, a piccoli gruppi, a rapprresentare tutti i bambini del mondo, con la loro voglia di sorridere, di stare insieme e di fare amicizia. Poi, a poco a poco, ogni gruppo abbandona i propri giochi; ora si prendono per mano a coppie e una dopo l’altra si roncorrono come le gocce d’acqua di una cascata, una nell’altra, una dentro l’altra, per formare un serpentone che ondeggia sinuoso fino a fermarsi dritto davanti a me. Ora, prima nelle note finali, un momento di silenzio assoluto: Le coppie sono immobili, senza respiro, con le braccia alzate a formare una galleria, dentro alla quale qualcuno sta avanzando adagio, reggendo un cesto di vimini colmo di gru di carta; le mie mani si muovono nervose a rallentare l’avanzata di Fabiola, per non anticipare la sorpresa finale, poi… “Via!!!” E la nostra “diversamente abile”, a cui o Stato dà il diritto di avere un’insegnante di sostegno, ma che nessuno ha mai visto perché il “ghetto” fa paura, rovescia sul pubblico il contenuto del cesto, guardandoci tutti, orgogliosa e trionfante.
Ma sono orgogliosa anch’io, dei miei ragazzi, e mi sta spuntando una lascimuccia nell’angolino dell’occhio, mentre mi arriva da molto lontano, come in sogno, la voce di Consuelo che raccontaal pubblico il significato della nostra storia: “Una leggenda racconta che la gru, uccello sacro in Giappone, vive mille anni e che se una persona ammalata costruisce mille gru di carta, guarirà: ecco perché gli studenti di Hiroshima hanno costituito il Club delle Mille Gru, allo scopo di aiutare i bambini a restare insieme pensando e lavorando per la pace”.
Vorrei abbracciarli e baciarmeli tutti, i mei ragazzi, ma non sono abtuata ad esternare troppo i mei sentimenti: mi bast accarezzarmeli tutti con lo sguardo, mentre, con le guance in fiamme e gli occhi lucidi, stanno immobili a ricevere la cascata di applausi che si sta rovesciando su di loro. Poi finalmente mi guardano, come per avere la conferma che è andato tutto bene e finalmente posso lasciar scendere, a ritmo di nmusica, quella lacrimuccia impertinente che ho invano cercato di trattenere: “ Tara-taratà…”


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Il predatore

Racconto finalista al Premio  Letterario “Sotto gli archi di Sarigo” (Va)  2009 per racconto inedito sul tema “Un mistero del lago”.

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