La porta bianca

miniportabiancaLa porta bianca
in stile giapponese
separa con la sua stoffa satinata
l’incubo della notte
dalla follia del giorno.

È leggero, il suo fruscio,
nello scandire un tempo
che si apre e si chiude
a simmetriche giornate immerse
nella medesima penombra
silenziosa e affranta.

Il futuro,incenerito
da un improvviso schianto,
abbandona i ricordi alla deriva,
come legni franti di una vela
lacera e smunta affogata
nel buio di un infinito pianto.


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Ospedale S. Raffaele – Milano 2 gennaio 2013

miniSanRaffaeleÈ impressionante, questa città nella città, attraversata dal binario della “navetta” che fa la spola ogni venti minuti da Cascina Gobba, i parcheggi coperti, con le casse automatiche per il pagamento della sosta e il centro commerciale nei sotterranei, con le sue accattivanti vetrine, da quelle del supermercato a quella della gioielleria, del ristorante/pizzeria, della boutique, del giocattolaio, della libreria… proprio accanto agli sportelli per il ritiro dei referti e l’ingresso al Pronto Soccorso, dove ti entra nei pori l’ansia collettiva, mescolata a lacrime di sollievo e di disperazione.
All’esterno, l’Hotel Rafael inganna la gente, presentando una “cartolina” da villaggio vacanze di lusso, mentre l’angelo bianco del Signore incombe da una cupola con le luci intermittenti anti crash per gli aerei in decollo/atterraggio a Linate; ci si perde, tra le frecce e i cartelli direzionali che indicano settori A-B-C-D… dell’HSF, dove l’H sta per “Hospital”, per dare una pennellata d’internazionalità ai visitatori di questa fiera campionaria del dolore.
Gli ascensori sfornano a getto continuo occhi dilatati e sguardi d’aspettativa o di rassegnazione rivolti ai corridoi dei vari reparti, nei quali, tra abeti natalizi ormai franti e stelline giallo rosse appese alle porte, s’aggirano dottorini asettici e personale in buona parte straniero, efficienti soldatini di un formicaio nel quale ognuno sembra conoscere perfettamente il proprio ruolo in questa comunità di degenti, in cui si mescolano etnie e lingue diverse che condividono il comune denominatore dell’angoscia e della speranza.
Sono piani e piani di stanze/alveare, con finestre sigillate da cotone idrofilo e traverse da letto per bloccare gli spifferi, infissi e serramenti sbocconcellati dai colpi e dall’uso, i tavolini a parete a mo’ di mensola, sui quali diventa un’acrobazia appoggiare il vassoio con i pasti riscaldati nel microonde, ma con l’immaginetta della Madonna infilata nella fessura tra il bordo e la parete.
Dalla celletta in cui mi trovo, in visita a ciò che rimane della mia famiglia, fotografo il piazzale che celebra la creatura concepita da Schuster e partorita da Don Verzé.
Visitatori frettolosi, avvolti in cappotti, sciarpe e cappelli inumidi dal freddo unto della città, camminano arricciando e sollevando le spalle per allontanare il gelo della paura, che prende le ossa più di questa pioggerellina fine fine che non sai se aprire l’ombrello o lasciar perdere, forse pensando all’estate, quando l’enorme campana a vista che mi ricorda Rovereto chiamerà a raccolta sotto ai gazebo tanti disperati in cerca di miracoli, che soltanto un’incrollabile speranza a volte concede, a dispetto di tutti gli dei.
Laggiù, tra i viali di questo sacrario, s’intravedono anche gli striscioni e le bandiere rosse del presidio dei lavoratori del San Raffaele, che giorno e notte si ostinano a lottare con tutte le loro forze per mantenere in vita l’attenzione dell’opinione pubblica in difesa di quei 244 condannati alla morte civile dalle leggi di mercato, che tra poco perderanno il posto, la dignità e l’onore.
Umanità affranta che s’incrocia e non trova il coraggio di guardarsi negli occhi, nell’amara giornata del 2 gennaio 2013, al “santuario” di Don Verzé.

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L’anno nuovo

S’è tinta di fuoco
l’alba del primo giorno
alitando fragranza di calicantus
e di cieli lontani.

Il risveglio si veste di coraggio
prima di accogliere la speranza
tra le mani impaurite
di nostalgia.

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Più non rivedrai la neve

Più non rivedrai la neve,
che cancella dall’iride ogni colore
lasciando soltanto impalpabili sfumature
impresse nella lastra di una foto
d’altri tempi, stampata
nell’ombra di una stanza
silenziosa e oscura.

Nei miei occhi si nasconde
il ricordo della bocca tua
affamata e rossa
affondata nel gelo distillato
dal cielo infreddolito e bianco,
mentre avidamente beveva la vita
e ancora non sapeva dello sgomento
che attanaglia l’anima
quando il respiro scivola via
impercettibile e stanco
senza alcun fruscio che ne accompagni
il doloroso addio.

A te, che fosti i miei occhi e il mio respiro…

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Il trentesimo giorno

Sono i giorni del pianto che disfa la neve
e della tramontana
che svela il capo rivolto alla terra,
le mani orfane del segno di croce
affondate nella tasca in cerca di briciole
e di ricordi,
le dita nervose a contare
le notti del buio e del silenzio.

L’angelo pietoso alla finestra prega
inutilmente
folle d’amore e di rassegnazione,
in attesa di un sogno colmo di lucciole
che annunci la tua presenza,
avvolto nel manto stellato della fede.


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Velo di Natale

Come un manto di Madonna,
velo di sposa,
ecco riappare l’esile
disegno del Natale.

Si spezza il cuore incrinato
dal dolore
e fugge via da quella luce
che nella notte voleva essere
Il misterioso sussurro
della fede.

L’avremmo fotografato così, insieme, come sempre, il Natale del nostro paese… Gianni…

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La morte non è niente – Henry Scott Holland

A Gianni

30/3/1947 – 8/11/2012

La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano
quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami!
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore,
ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami:
il tuo sorriso è la mia pace.

Henry Scott Holland

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Addio

La panca vuota rabbrividisce
allo scatto di una foto
priva di te
e dei tuoi occhi,
che della luce si cibarono
e delle tue acque,
lago delle meraviglie
e del dolore…


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Era l’estate di S. Martino

T’ho baciato la bocca
gelida di marmo
e gli occhi tuoi, chiusi
allo sguardo del mondo
rivolti soltanto al fruscio del silenzio
che scivola dentro una notte perenne,
solitaria e muta.

T’ho raccontato dell’estate di S. Martino,
mentre t’accompagnavo lungo la cantonale
che abbraccia il lago sfumato
dalla nebbia di novembre
e il confine ci ha visti
rallentare appena l’andatura,
nell’attonito stupore dell’improvvisa pioggia.

Ciao, Gianni…

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La morte calza sandali di feltro

Aspetto,
dal crepuscolo del giorno
al nocciolo della sera,
il tuo arrivo in sordina
coi sandali di feltro,
come l’ultima volta,
quando solo un attimo di distrazione
m’impedì di guardarti in volto,
cogliendoti di sorpresa
per incantarti
e distogliere il tuo sguardo.

So che verrai di nuovo,
perciò resto qui seduta,
nella penombra della stanza,
col vestito della festa
e le scarpe morbide,
di nappa,
poi sarò io a cingerti le braccia
baciandoti sulla bocca,
prima di trascinarti con me, lontano,
così ti convincerai che t’amo.


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