Sulle ali della superbia

Avresti immaginato
di scivolar lungo la china
verso la palude che
solo ieri osservavi da lontano
mentre le ali della superbia sostenevano
il tuo volo di fragile falena
lasciandoti credere di possedere
la fiera regalità dell’aquila?

Ora respiri il fetore dell’acqua stagnante
sognando ancora l’estasi
che t’incatenò alla rupe della follia d’amore
guardando macerare i tuoi ricordi inutili
nella solitudine di un tormento
che ti acceca e ti consuma.

Sulle ali della superbia – Versione audio

[cincopa A8EAUzqlLDml]

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Cosa vuoi che sia, il tempo?

Cosa vuoi che sia, il tempo?

È un guerrigliero in perenne fuga,
in cerca di un pentagramma per voce sola
su cui depositare indelebili le sue note.

È movimento delle dita tra il battere
ed il levare di un valzer lento,
dove le pause impongono il ritmo al canto.

È voce di contralto che modula in crescendo,
mordendo l’aria rarefatta d’alta quota
e poi si spegne,
allargando ad un pianissimo dall’intensità
di un soffio,
nel quale riecheggia la variazione
del tema dominante,
che si perde lontano
e non ritorna.

Cosa vuoi che sia, il tempo? – Versione audio

[cincopa AABABwqo_2kI]

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Ultimo giorno dell’anno

Mancavano ormai poche ore al termine di un anno che si era sgomitolato come il rotolo di una celebre carta igienica della pubblicità, con una fretta che non aveva permesso alcuna pausa di riflessione, nemmeno per consentire di socchiudere l’uscio sul passato, o giusto per sbirciare dalla finestra della cucina, scostando la tendina a fiorellini gialli, per rendersi conto che il tempo era cambiato.
Già, non solo erano trascorse quattro stagioni dall’ultimo capodanno, impazzite ed alterate dalle follie di un clima sempre più bizzarro e capriccioso: erano proprio mutate le condizioni di vita di quella coppia di mezza età, che fino a quel momento non aveva subito grandi scossoni o significative deviazioni di percorso.
Da qualche mese, insomma, quell’ospite inatteso e non gradito si era presentato alla porta, con un’invadenza e una prepotenza alla quale la donna non era stata abituata e che, fino ad allora, aveva soltanto intravisto accomodato nelle case altrui, senza peraltro rendersi realmente conto delle situazioni destabilizzanti che simili visite inopportune provocano nei nuclei familiari in cui questi sconosciuti s’ntrufolano, spesso con manovre tanto subdole e mascherate che nessuno avrebbe potuto mettere in guardia i poveri sciagurati dal devastante flagello che stava per abbattersi su di loro.
Da quando, dunque, la malattia, con la sua misteriosa sigla che la donna utilizzava per evitare di spaventare coloro che si informavano dello stato di salute di suo marito, si era impadronita di quella casa, i giorni e le notti, ma soprattutto le notti, si alternavano con l’affanno e l’ansia concentrati sui quotidiani problemi da risolvere, ogni volta sempre più incalzanti e “virulenti”, tanto che la donna si sentiva come il povero levriero costretto a rincorrere la lepre meccanica nell’anello del cinodromo senza mai raggiungerla, perennemente con il cuore in gola ed il respiro corto per la tensione, sperando alternativamente che quella “gara” perversa avesse fine oppure che fosse lei stessa a soccombere, così da chiudere definitivamente, anche se vigliaccamente, la partita con una vita da cui si era sentita tradita e ingannata.
Incredulità e disperazione, miste ad orgoglio e rabbia, si erano impadroniti di lei, ma non tanto profondamente da impedirle di reagire con cocciuta ostinazione all’accanirsi della sorte, proseguendo imperterrita quel cammino così difficile e dal futuro così incerto, la cui durata non era assolutamente ipotizzabile, ma che sicuramente avrebbe condotto entrambi verso un doloroso calvario, non condivisibile con alcuno, se non con la badante che da un mese si prendeva cura di entrambi.
La moglie aveva ben presto imparato a decodificare ogni minimo tentativo di comunicazione da parte di lui, la cui mente ancora lucida era ormai imprigionata in un corpo che non rispondeva più ai comandi, trasmettendo sempre più ad intermittenza e in preda a frequenti scatti d’ira impotente di fronte a quell’intollerabile situazione.
In quei giorni, però, fortunatamente il Natale aveva permesso una breve tregua all’angosciosa esistenza dei due e, per qualche momento, fra quelle mura si era respirata una certa atmosfera di normalità, che aveva inondato di fragranza le stanze dell’appartamento vista lago in cui vivevano segregati da mesi, ostaggi di quella malattia degenerativa dal nome quasi impronunciabile e che solo sporadicamente erano state meta di visite di circostanza che, col passare del tempo, si erano progressivamente diradate, fino a cessare del tutto, giust’appunto alla vigilia delle festività.
Ecco che allora, affrontando il disagio e la pericolosità degli spostamenti di quell’uomo ormai impossibilitato a muoversi, se non faticosamente spinto su una sedia a rotelle, la moglie se l’era caricato in macchina e insieme avevano raggiunto le mete che erano soliti frequentare in passato.
Durante quelle brevi gite sembrava proprio che tutto fosse come allora e che il presente fosse solo un incubo da cui avrebbero potuto risvegliarsi con sollievo la mattina seguente, ma quando tornavano tra quelle mura rimesse a nuovo proprio per accogliere dignitosamente quella disabilità, così impossibile da accettare, si ritrovavano desolatamente ed impietosamente soli.
Perfino i parenti, temendo il rischio di doverli invitare il giorno di Natale, avevano più volte accennato, nei giorni precedenti, all’antica abitudine della coppia di pranzare con alcuni amici, suggerendo di rispettare anche quest’anno la “tradizione”. La donna li aveva lasciati parlare, ma poi aveva trovato il modo di offrire all’uomo una giornata serena, servendosi del ristorante sotto casa, che per l’occasione aveva preparato alcuni pasti da consegnare a domicilio, con buona pace di fratelli e nipoti.
Nei giorni seguenti le giornate limpide di un inverno non particolarmente rigido avevano permesso loro di fare qualche sortita all’esterno, per avventurarsi verso la Struttura Assistita che aveva accolto l’uomo per un certo periodo, con l’alibi di scambiare gli auguri, portare qualche dono e fare quattro chiacchiere.
In realtà, pur senza volerlo ammettere, si rendevano conto di essere ormai entrati a far parte di una comunità parallela: quella degli emarginati, a cui appartengono i vecchi, i diversi, i disabili e gli ammalati. Esseri umani che perdono il diritto di stare con gli altri perché la loro presenza è scomoda e imbarazzante: sono brutti e sgradevoli da vedersi, mettono a disagio soprattutto i bambini, forse sono addirittura portatori di qualche misterioso morbo contagioso; deturpano il paesaggio, raggelano l’atmosfera festosa. Insomma: rappresentano la nota stonata nella sublime sinfonia del creato. Del resto, anche là, alle “Residenze”, durante quelle visite, non avevano incontrato altri familiari o conoscenti degli ospiti, malinconicamente abbandonati davanti alla tv o al tavolo in attesa della merenda.
Fu proprio in occasione dell’ultima “rimpatriata”, nel pomeriggio di S. Silvestro, che, dopo aver salutato e baciato tutti sotto ad un rametto di vischio portato per l’occasione, la donna si era chiarita finalmente le idee su ciò che le avrebbe riservato il futuro.

Dunque quella sera cenarono come sempre intorno alle 19, poi si misero comodamente seduti sul divano, con le tapparelle alzate e le tende tirate, per sentirsi coinvolti dal fragore dei botti che già cominciavano a scoppiare lungo la strada e sui marciapiedi, quindi la donna stappò una bottiglia di cocktail alla pesca e cosparse di zucchero a velo il pandoro di marca della confezione natalizia lasciata dai cognati la settimana prima, ne portò una fetta al marito, dopo avergli fatto stendere sul cuscino “le zampette”, come chiamava lei quelle povere gambe inerti e rattrappite, infine, dopo aver sollevato i bicchieri di plastica, brindarono al nuovo anno secondo il fuso orario di Nuova Dehli, con quattro ore d’anticipo e durante il messaggio agli italiani del Presidente della Repubblica.
Infine iniziò pazientemente ad imboccarlo, con un mesto sorriso e dimenticando il telefono muto sulla poltrona, intenta ad ascoltare soltanto il pigolio sommesso di quel pettirosso implume che solo lei era in grado di capire, scartando l’ostracismo dal mondo come regalo del nuovo anno e pensando che, tutto sommato, il confine tra la vita e la morte è soltanto un uscio che si chiude alle nostre spalle…

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Carillon

Come hai potuto
non capire
non voler sapere,
respirare
l’alito della menzogna,
dal retrogusto così aspro
e intossicante,
celato in poche gocce di miele
e di rosolio?

Gira,
la bambolina inerme,
al suono accattivante del carillon,
che dell’arte e della sua commedia
scandisce il tempo,
lasciando al burattinaio
Il diritto all’ultima parola.

Anche tu, “amica mia”… sei finita tra le bambole rotte nel baule del burattinaio…

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Ti sorride il sogno

S’inerpica, il tuo passo inquieto,
sul sentiero che sale alla “casa rossa”,
là, dove dal “sasso alto”
il desiderio s’immerge nella quiete del lago,
l’orizzonte si moltiplica
tra i crinali dei monti e il cielo
si fa più terso nell’accogliere lo stupore
dello sguardo che valica l’infinito.

È il sogno, che ti prende per mano
e ti sorride,
accarezzando il tuo volto sfatto,
mentre dietro le palpebre chiuse
insegui la vita con il fremito di un fanciullo
al primo appuntamento,
lasciandoti scompigliare i riccioli
dalla brezza che scivola dalle cime
a stemperar l’arsura.

Ti sorride il sogno – Versione audio

[cincopa AsIASwKbymPJ]

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Mezzanotte santa

Ai rintocchi della mezzanotte
si chiuderà la porta e resterò seduta
ad ascoltare l’ospite
che respira nella penombra della stanza
e stringe nella sua morsa le membra anchilosate
che lentamente si piegano alla perversione della morte.

Scivolerà lieve il nastro dai pacchetti
accompagnando il gorgoglio della tua voce,
ruscello di montagna che rincorre l’aria tersa
e non conosce sosta.

Invano il silenzio cercherà di baciarmi le labbra secche,
aspirando l’eco dell’ultimo canto di questo Natale
arido e senza neve.

Il tempo attende soltanto
l’incanto di una nota tenuta,
ad libitum…

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Va pensiero

È un filo di seta,
che continua ad inseguire l’onda
del ricordo, un fluire denso
di fluida melodia
dalla voce bianca,
in attesa di un cenno
per volare lontano,
in chiave di sol,
glissando in crescendo
sulla scala cromatica della vita.

È soltanto muta nostalgia,
che non restituisce il sorriso
alla memoria,
ma disegna la pausa
di una semicroma
sul pentagramma di una partitura
senza corona, né ritornello.

Imparai il “Va pensiero” a scuola. Ero in quinta elementare e il maestro di canto, che noi chiamavamo “Bombardone”, sputò sudore e sangue, per insegnarcelo, con gli accenti, le pause e gli staccati al posto giusto.
Oggi l’ho sentito ricantare da un formidabile coro di ragazzi, durante il concerto trasmesso in TV in diretta dalla Camera dei Deputati e il mio “Va pensiero” ha cantato con loro…

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Lo zucchero e il melograno

Ricordo la fragranza del pane,
le pannocchie dorate nel cesto e
i chicchi sgranati del mais,
le risa d’argento
e il tepore dei giorni felici
tra i filari, lo zucchero e il melograno.

Ritrovo negli occhi l’ansia d’allora,
quando l’ozio moriva
il primo giorno d’ottobre
e consumavo le ore di scuola
sognando del fiume e della collina.

Non uno di loro è rimasto a cantare nel coro
e di quei volti non resta che l’incerto profilo
di una memoria d’amore,
mentre il magone prende per mano la mente,
che si perde lontano nel tempo,
inseguendo un tintinnio di campanelli
e il sapore dell’uva.


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Infinito orrore

Come zolla indurita dal gelo,
intrisa di sterco e di piscio,
impermeabile all’umida notte,
refrattaria al pallido sole invernale,
abbandonata nel campo incolto
disseminato di sterpi e di gramigna,
osservo lo sguardo vitreo della follia,
mendicare pigolando un bacio d’amore,
la carezza negata
che Il palmo di mano rifiuta di dare,
un sorso di speranza sulle labbra riarse
dalla rassegnazione.

Nel tuo volto neutro e levigato
si cela la smorfia d’infinito orrore,
l’incredulo specchiarsi della mente tradita
in un corpo anchilosato,
che lentamente muore.

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Ma quale amore

Di quale amore vorresti parlare,
di quale tramonto,
di quale viale…
Di quale luna che illumina il sentiero
tra le fronde innevate degli alberi di Natale…

È un pacchetto regalo
di parole fruste ed abusate
succhiate tra i denti e ruminate,
prima d’essere sputate in faccia
al sorriso cieco dell’amante,
che ancora s’illude d’assaporarne
Il primitivo gusto,
appetitoso, morbido, fragrante.

È solo il rigurgito acido di un pasto rancido
scodellato di malavoglia nella ciotola del cane,
il rantolo di una bugia fessa e biascicata,
scartocciata tra gli avanzi ammuffiti di un pranzo
malinconicamente consumato
nella squallida mensa del dopolavoro,
lungo la ferrovia.

Alle donne che si ostinano a vivere nel regno degli gnomi e delle fate: aprire gli occhi è doloroso, ma spesso terapeutico…

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