Ultimo giorno dell’anno

Mancavano ormai poche ore al termine di un anno che si era sgomitolato come il rotolo di una celebre carta igienica della pubblicità, con una fretta che non aveva permesso alcuna pausa di riflessione, nemmeno per consentire di socchiudere l’uscio sul passato, o giusto per sbirciare dalla finestra della cucina, scostando la tendina a fiorellini gialli, per rendersi conto che il tempo era cambiato.
Già, non solo erano trascorse quattro stagioni dall’ultimo capodanno, impazzite ed alterate dalle follie di un clima sempre più bizzarro e capriccioso: erano proprio mutate le condizioni di vita di quella coppia di mezza età, che fino a quel momento non aveva subito grandi scossoni o significative deviazioni di percorso.
Da qualche mese, insomma, quell’ospite inatteso e non gradito si era presentato alla porta, con un’invadenza e una prepotenza alla quale la donna non era stata abituata e che, fino ad allora, aveva soltanto intravisto accomodato nelle case altrui, senza peraltro rendersi realmente conto delle situazioni destabilizzanti che simili visite inopportune provocano nei nuclei familiari in cui questi sconosciuti s’ntrufolano, spesso con manovre tanto subdole e mascherate che nessuno avrebbe potuto mettere in guardia i poveri sciagurati dal devastante flagello che stava per abbattersi su di loro.
Da quando, dunque, la malattia, con la sua misteriosa sigla che la donna utilizzava per evitare di spaventare coloro che si informavano dello stato di salute di suo marito, si era impadronita di quella casa, i giorni e le notti, ma soprattutto le notti, si alternavano con l’affanno e l’ansia concentrati sui quotidiani problemi da risolvere, ogni volta sempre più incalzanti e “virulenti”, tanto che la donna si sentiva come il povero levriero costretto a rincorrere la lepre meccanica nell’anello del cinodromo senza mai raggiungerla, perennemente con il cuore in gola ed il respiro corto per la tensione, sperando alternativamente che quella “gara” perversa avesse fine oppure che fosse lei stessa a soccombere, così da chiudere definitivamente, anche se vigliaccamente, la partita con una vita da cui si era sentita tradita e ingannata.
Incredulità e disperazione, miste ad orgoglio e rabbia, si erano impadroniti di lei, ma non tanto profondamente da impedirle di reagire con cocciuta ostinazione all’accanirsi della sorte, proseguendo imperterrita quel cammino così difficile e dal futuro così incerto, la cui durata non era assolutamente ipotizzabile, ma che sicuramente avrebbe condotto entrambi verso un doloroso calvario, non condivisibile con alcuno, se non con la badante che da un mese si prendeva cura di entrambi.
La moglie aveva ben presto imparato a decodificare ogni minimo tentativo di comunicazione da parte di lui, la cui mente ancora lucida era ormai imprigionata in un corpo che non rispondeva più ai comandi, trasmettendo sempre più ad intermittenza e in preda a frequenti scatti d’ira impotente di fronte a quell’intollerabile situazione.
In quei giorni, però, fortunatamente il Natale aveva permesso una breve tregua all’angosciosa esistenza dei due e, per qualche momento, fra quelle mura si era respirata una certa atmosfera di normalità, che aveva inondato di fragranza le stanze dell’appartamento vista lago in cui vivevano segregati da mesi, ostaggi di quella malattia degenerativa dal nome quasi impronunciabile e che solo sporadicamente erano state meta di visite di circostanza che, col passare del tempo, si erano progressivamente diradate, fino a cessare del tutto, giust’appunto alla vigilia delle festività.
Ecco che allora, affrontando il disagio e la pericolosità degli spostamenti di quell’uomo ormai impossibilitato a muoversi, se non faticosamente spinto su una sedia a rotelle, la moglie se l’era caricato in macchina e insieme avevano raggiunto le mete che erano soliti frequentare in passato.
Durante quelle brevi gite sembrava proprio che tutto fosse come allora e che il presente fosse solo un incubo da cui avrebbero potuto risvegliarsi con sollievo la mattina seguente, ma quando tornavano tra quelle mura rimesse a nuovo proprio per accogliere dignitosamente quella disabilità, così impossibile da accettare, si ritrovavano desolatamente ed impietosamente soli.
Perfino i parenti, temendo il rischio di doverli invitare il giorno di Natale, avevano più volte accennato, nei giorni precedenti, all’antica abitudine della coppia di pranzare con alcuni amici, suggerendo di rispettare anche quest’anno la “tradizione”. La donna li aveva lasciati parlare, ma poi aveva trovato il modo di offrire all’uomo una giornata serena, servendosi del ristorante sotto casa, che per l’occasione aveva preparato alcuni pasti da consegnare a domicilio, con buona pace di fratelli e nipoti.
Nei giorni seguenti le giornate limpide di un inverno non particolarmente rigido avevano permesso loro di fare qualche sortita all’esterno, per avventurarsi verso la Struttura Assistita che aveva accolto l’uomo per un certo periodo, con l’alibi di scambiare gli auguri, portare qualche dono e fare quattro chiacchiere.
In realtà, pur senza volerlo ammettere, si rendevano conto di essere ormai entrati a far parte di una comunità parallela: quella degli emarginati, a cui appartengono i vecchi, i diversi, i disabili e gli ammalati. Esseri umani che perdono il diritto di stare con gli altri perché la loro presenza è scomoda e imbarazzante: sono brutti e sgradevoli da vedersi, mettono a disagio soprattutto i bambini, forse sono addirittura portatori di qualche misterioso morbo contagioso; deturpano il paesaggio, raggelano l’atmosfera festosa. Insomma: rappresentano la nota stonata nella sublime sinfonia del creato. Del resto, anche là, alle “Residenze”, durante quelle visite, non avevano incontrato altri familiari o conoscenti degli ospiti, malinconicamente abbandonati davanti alla tv o al tavolo in attesa della merenda.
Fu proprio in occasione dell’ultima “rimpatriata”, nel pomeriggio di S. Silvestro, che, dopo aver salutato e baciato tutti sotto ad un rametto di vischio portato per l’occasione, la donna si era chiarita finalmente le idee su ciò che le avrebbe riservato il futuro.

Dunque quella sera cenarono come sempre intorno alle 19, poi si misero comodamente seduti sul divano, con le tapparelle alzate e le tende tirate, per sentirsi coinvolti dal fragore dei botti che già cominciavano a scoppiare lungo la strada e sui marciapiedi, quindi la donna stappò una bottiglia di cocktail alla pesca e cosparse di zucchero a velo il pandoro di marca della confezione natalizia lasciata dai cognati la settimana prima, ne portò una fetta al marito, dopo avergli fatto stendere sul cuscino “le zampette”, come chiamava lei quelle povere gambe inerti e rattrappite, infine, dopo aver sollevato i bicchieri di plastica, brindarono al nuovo anno secondo il fuso orario di Nuova Dehli, con quattro ore d’anticipo e durante il messaggio agli italiani del Presidente della Repubblica.
Infine iniziò pazientemente ad imboccarlo, con un mesto sorriso e dimenticando il telefono muto sulla poltrona, intenta ad ascoltare soltanto il pigolio sommesso di quel pettirosso implume che solo lei era in grado di capire, scartando l’ostracismo dal mondo come regalo del nuovo anno e pensando che, tutto sommato, il confine tra la vita e la morte è soltanto un uscio che si chiude alle nostre spalle…

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5 Responses to Ultimo giorno dell’anno

  1. giampiero iezzi says:

    Vorrei lasciare la vita tua ooh DIO che infastidisce la mia anima. E’ricca già di fede per creare amore intorno a un nuovo mondo … è lontano anni luce… mah con la mia eterna pazienza di cercare un nuovo corpo per una nuova vita ben ci sarà nell’universo qualche outlet come nel tuo cielo, supermercato che offre corpi di bell’abbigliamento allo sconto rovinati da altri per vendere la vita. Fregatura è che l’anima agisce d’istinto sentimento
    con poco cervello senza ragione discerne solo amando chi a lei offre amore ma non vede senza occhi….. non sente senza orecchie non distingue chi subdolo si disopone bello nel suo essere cattivo…… lei nel suo essere profuma e attrae colori in volo come la farfalla libellula nell’aria cercando in un corpo sano la sua certezza di vita…… eeh ci riuscirà

  2. Anna Maria Obadon says:

    Mi viene da dire che sono scene di vita vissuta impresse ormai nella psiche come tatuaggi indelebili. Forse ciò che fa più male in queste situazioni e l’indifferenza di chi ti è parante o si è professato un tempo ” amico”. So che non serve a niente ciò che dico ma ti sono vicina e mi piacerebbe poter far qualcosa per voi. Non esprimerò le solite frasi di circostanza che, a suo tempo, mi sono state propinate come :” fatti forza ….o tirati sù” ma come una povera sciocca mi piacerebbe che si trovasse una cura rapida per questa devastanti malattie neurologiche. Come volontaria in ospedale sono sempre a contatto con la sofferenza e a volte è talmente forte che sembra di poterla toccare con le mani e con l’anima. Un abbraccio, Marina….

  3. Inevitabilmente, davanti a storie come questa, non posso fare a meno di ricordare quell’opprimente senso d’impotenza, quella lacerazione dell’anima, durante i due anni che mi videro assistere alla progressiva malattia degenerativa di mio padre. Nel corrispettivo calvario dei continui spostamenti in strutture e ospedali, ma soprattutto nel calvario della sua atroce sofferenza fisica e spirituale: le sue silenziose lacrime davanti alle sue tele che non poteva più dipingere, al suo violino che non poteva più suonare… e che accarezzava come possono accarezzarsi dei bambini…
    Ogni giorno era un’estenuante sfida da superare con me stessa, davanti a un dolore che sentivo tanto più grande di me e al quale ero assolutamente impreparata.
    Ma il dolore, cosi come la morte, non danno il preavviso…
    Anche quando, quest’ultima, si presenta precocemente.
    Mi consola solo il fatto che mio padre è stato supportato dall’amore e dal sostegno dei suoi cari. E mia madre, a differenza della drammatica storia umana che ci presenta Marina, non ha dovuto combattere da sola.
    E questo conta davvero tanto… perché nessuno, in simili circostanze, dovrebbe trovarsi mai da solo… o, ancor peggio, essere vittima dell’ipocrisia e dell’abbandono dei parenti.
    Che dire a te, Marina cara, se non stringerti in un fortissimo, fraterno abbraccio di solidarietà e affetto.
    Ti sia di conforto e aiuto la poesia della tua bella anima.

  4. giampiero iezzi says:

    Io non vorrei lasciare solo un commento ma, devo sfogare e maledire chi costringe gli umani ad essere attori per forza usurati di salute per la verità di quale realtà o ruolo da sceneggiare laonde svegliare la Carità Interiore di chicchessia. Ooh Cristo! Con una immagine. ..la tua nel 2000 puoi fare tutte le campagne pubblicitarie che vuoi …. L’undicesimo comandamento recità libera l’uomo dalla disabilità per liberare la vita segregata per esprimere come meglio crede. In mancanza dei basilari per ragionare conviene il suicidio per non soffrire senza una motivazione. Anche io come Marina e Gianni, chissà quanti c’è ne saranno in giro sulla terra di altre testimonianze di vita fragili di corpo notevoli iridiosi di luce universale propria nello spirito beati per l’anima reattiva non per una vita Santa votata al sacrificio. Mah, per divertirsi d’emozioni comprimersi in continua tensione ricchissima di luce per te Signore che hai l’argento vivo addosso sempre opaco ….continuamente da lucidare la fede da vedere per credere …come la nostra tristezza Marina! Ciò che il mondo vede e non nota mai, è la felicità di esistere in barba a chi ci vede e si commuove del disabile male rognati.

  5. Leggendo questa toccante pagina di “diario”, faccio miei empaticamente il tuo dolore, lo smarrimento innanzi al progredire inarrestabile della patologia e l’isolamento che anch’io ho provato nella “deflagrazione” della malattia degenerativa di mia madre, condividendo con lei il calvario in ospedali e strutture, ed il bieco sguardo di parenti che si fingevano compartecipi e mostravano in realtà soltanto il ghigno dell’ipocrisia e dello sciacallaggio “nella spartizione” postuma….
    “La morte si sconta vivendo” scriveva il grande Ungaretti.
    Ti sia consolazione la Poesia, cara Marina.

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