È impressionante, questa città nella città, attraversata dal binario della “navetta” che fa la spola ogni venti minuti da Cascina Gobba, i parcheggi coperti, con le casse automatiche per il pagamento della sosta e il centro commerciale nei sotterranei, con le sue accattivanti vetrine, da quelle del supermercato a quella della gioielleria, del ristorante/pizzeria, della boutique, del giocattolaio, della libreria… proprio accanto agli sportelli per il ritiro dei referti e l’ingresso al Pronto Soccorso, dove ti entra nei pori l’ansia collettiva, mescolata a lacrime di sollievo e di disperazione.
All’esterno, l’Hotel Rafael inganna la gente, presentando una “cartolina” da villaggio vacanze di lusso, mentre l’angelo bianco del Signore incombe da una cupola con le luci intermittenti anti crash per gli aerei in decollo/atterraggio a Linate; ci si perde, tra le frecce e i cartelli direzionali che indicano settori A-B-C-D… dell’HSF, dove l’H sta per “Hospital”, per dare una pennellata d’internazionalità ai visitatori di questa fiera campionaria del dolore.
Gli ascensori sfornano a getto continuo occhi dilatati e sguardi d’aspettativa o di rassegnazione rivolti ai corridoi dei vari reparti, nei quali, tra abeti natalizi ormai franti e stelline giallo rosse appese alle porte, s’aggirano dottorini asettici e personale in buona parte straniero, efficienti soldatini di un formicaio nel quale ognuno sembra conoscere perfettamente il proprio ruolo in questa comunità di degenti, in cui si mescolano etnie e lingue diverse che condividono il comune denominatore dell’angoscia e della speranza.
Sono piani e piani di stanze/alveare, con finestre sigillate da cotone idrofilo e traverse da letto per bloccare gli spifferi, infissi e serramenti sbocconcellati dai colpi e dall’uso, i tavolini a parete a mo’ di mensola, sui quali diventa un’acrobazia appoggiare il vassoio con i pasti riscaldati nel microonde, ma con l’immaginetta della Madonna infilata nella fessura tra il bordo e la parete.
Dalla celletta in cui mi trovo, in visita a ciò che rimane della mia famiglia, fotografo il piazzale che celebra la creatura concepita da Schuster e partorita da Don Verzé.
Visitatori frettolosi, avvolti in cappotti, sciarpe e cappelli inumidi dal freddo unto della città, camminano arricciando e sollevando le spalle per allontanare il gelo della paura, che prende le ossa più di questa pioggerellina fine fine che non sai se aprire l’ombrello o lasciar perdere, forse pensando all’estate, quando l’enorme campana a vista che mi ricorda Rovereto chiamerà a raccolta sotto ai gazebo tanti disperati in cerca di miracoli, che soltanto un’incrollabile speranza a volte concede, a dispetto di tutti gli dei.
Laggiù, tra i viali di questo sacrario, s’intravedono anche gli striscioni e le bandiere rosse del presidio dei lavoratori del San Raffaele, che giorno e notte si ostinano a lottare con tutte le loro forze per mantenere in vita l’attenzione dell’opinione pubblica in difesa di quei 244 condannati alla morte civile dalle leggi di mercato, che tra poco perderanno il posto, la dignità e l’onore.
Umanità affranta che s’incrocia e non trova il coraggio di guardarsi negli occhi, nell’amara giornata del 2 gennaio 2013, al “santuario” di Don Verzé.
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