«TRE LOCALI PIÙ SERVIZI, CON RIPOSTIGLIO, DUE BALCONI E CANTINA, VENDESI AL QUARTO PIANO DI PALAZZO SIGNORILE CON ASCENSORE ED AMPIO GIARDINO CONDOMINIALE».
Era il giorno del suo compleanno, quando Marina decise che avrebbe venduto la casa di Milano.
Non era del tutto sua, in verità, perché una parte apparteneva ancora a sua madre Valentina, ma era ormai chiusa da anni, lasciata lì, in Stand by, in attesa che qualcuno girasse la chiave nella toppa.
Pushhhh-On sul contatore della luce
Trrr! Trrr! Trrr! Le tapparelle in alluminio laccato bianco che salgono
Sccccc! L’acqua dai rubinetti che scarica la ruggine dalle tubature…
Come una bella principessa addormentata, al primo raggio di sole anche la casa si sarebbe risvegliata, come se fosse passato soltanto qualche istante dall’ultima volta che i suoi abitanti si erano chiusi alle spalle la pesante porta blindata.
Frrrr! Clac! Clac! Clac! Clac! Cigolarono il pomello in rotazione e i cilindri d’acciaio mentre pugnalavano con quattro mandate lo stipite rinforzato in acciaio.
Valentina, da quando era rimasta sola per la seconda volta, aveva trasferito il suo corpo nella casa di villeggiatura, sul lago, dove la figlia viveva ormai da trent’anni, lasciando il suo cuore a Milano, insieme ai mobili, alla biancheria della dote, ai servizi da caffè «Mitterteich-Bavaria U.S.Zone» dono di nozze nel lontano 1951.
Marina non aveva mai capito tanta ostinazione nel voler tenere quell’appartamento, che era diventato soltanto una fonte inesauribile di spese, uno stillicidio di bollette condominiali che si sommavano a quelle del canone di luce, gas, telefono a consumo zero. Non era nemmeno riuscita a convincere la madre ad affittarlo, magari a qualcuno che aveva la necessità di stabilirsi in città per motivi di studio: “Con la metropolitana proprio di fronte, raggiungere l’Università è questione di poche fermate e non mancano certo le offerte” Ragionava Marina, ma Valentina era irremovibile: “Quella casa è il mio mausoleo! Non si sa mai: potrei, un giorno, sentirmi meglio e aver voglia di ritornarvi, anche solo per qualche giorno”.
Invece la depressione si fece più profonda, sopraggiunse anche la malattia e il languore del lago ebbe il sopravvento sulla sua fragilità e sulla sua caparbietà, tanto da ridurla in un torpore che aveva minato per sempre la volontà di mantenere ben salde le radici nella sua città.
Così Marina ne aveva approfittato: quel giorno sua madre non le aveva fatto gli auguri, ormai viveva nel silenzio di un mondo tutto suo, popolato dai fantasmi del passato. Per questo motivo aveva pensato di punirla entrando nell’agenzia immobiliare per sbarazzarsi dell’abitazione milanese.
Quando, tre mesi dopo, le telefonarono per dirle che c’era qualcuno interessato all’appartamento, Marina capì che non poteva più rimandare: doveva trovare il coraggio di rivedere la casa.
Mrrrrr: Dump! L’ascensore si fermò al quarto piano.
Clac! Clac! Clac! Clac! E i pugnali abbandonarono lo stipite ferito.
Frrrrr! Si lamentò appena il pomello color bronzo, che, senza far resistenza, scoperchiò a Marina il vaso di Pandora del suo passato.
Dov’era il bel pavimento tirato a cera, di cui Valentina era tanto orgogliosa? Lastre opache, venature corrose dal cancro del marmo, inquietanti rigonfiamenti ne butteravano la superficie, simili al ribollire di un magma sotterraneo che, da un momento all’altro, avrebbe potuto esplodere con tutta la sua aggressività.
Il raggio di un pallido sole infiltrato mise in movimento milioni di corpuscoli: una polverosa danza di benvenuto che scomparve al Pushhhh-On che inondò di luce artificiale l’anticamera.
Fu allora che Marina li vide.
La cagnetta Laika era ancora lì, nascosta nella carrozzina delle bambole, a farsi scorazzare su e giù per la casa, finchè al grido di “Dove seeei?” allungava naso dalle tendine, tra la sorpresa e l’ilarità di tutti, che fingevano di non sapere.
C’era suo padre, con quell’unico schiaffo della sua vita, di reazione spaventata per il morso di Pippo, il lupone di nonna Giselda, che Marina aveva innervosito con una scatola di formaggini Milkana…
In sala i segni del pianoforte, sul quale le sue dita si erano affaticate durante le interminabili ore di studio, alleviate dalla fragrante ciambella di zia Giannina, che ogni venerdì, arrivava da Piola, tre fermate di Linea Verde, per passare il pomeriggio con la pronipote… anche quella sera di novembre, quando le note del Clementi si trasformarono nella stridente sirena di un’ambulanza, per strapparle il padre, senza nemmeno il tempo di un addio.
E vide sua nonna, comunista tutta d’un pezzo, che entrava in chiesa di nascosto per regalare catenine alla Madonnina sull’altare ogni volta che l’ansia e la preoccupazione per figli e nipoti le facevano dimenticare la Rivoluzione…
“Dai nonna, racconta di quando facevi «la piccinina» per la sarta e attraversavi Milano affondando gli stivali nella neve per consegnare le confezioni… Racconta di quando facevi l’operaia alla Olap, del cottimo e di quando il mio papà, quel primo maggio 1944, riuscì con il suo amico Arnaldo a far sventolare su Piazza Leonardo da Vinci quella bandiera rossa spuntata dal tetto della fabbrica… Dai, nonna, racconta…”
Ci vollero quattro mesi e tre spedizioni, per liberare l’appartamento e Valentina firmò la procura credendola una delega per l’assemblea di condominio. Libri, lenzuola di lino e servizi Mitterteich-Bavaria U.S.Zone sfollarono sul lago, i mobili, invece, furono abbandonati laggiù, all’indifferenza dei nuovi proprietari nei confronti dei ricordi che custodivano: una bambina in lacrime il giorno della Prima Comunione senza il suo papà, una giovane donna raggiante, in abito da sposa, pronta a volarsene via, convinta di aver tagliato il cordone ombelicale con la sua città…
Prima di chiudere per l’ultima volta la porta Marina smontò una seggiolina di legno scolorito: “La terrò sul mio balcone, ci appoggerò i piedi, non so…”
Poi Grrrr! Clac! Clac! Clac! Clac!
Salì in macchina senza voltarsi, senza una lacrima: “Addio, non ti vedrò mai più”.
E il suo passato svanì come una bolla di sapone al sole.
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