Ercole

Ercole arrivò alla «Struttura protetta» di martedì, proprio nel giorno del mio turno di volontariato coi nonni troppo stanchi per cavarsela da soli.
Avevo appena salutato Angela, sguardo fisso e un po’ manesca, che ogni volta ripeteva all’infinito: “Io vengo a casa con te, portami a casa, per piacere!” e Giuseppina, alla quale promettevo sempre di scappare con lei all’aeroporto, per tornare a Trebisacce, mentre cercavo di convincerla a non sputare in giro le “stelline”, come faceva con caparbia determinazione ogni volta che veniva contraddetta, mentre la stavo imboccando.
Quella sera aspettavo di portare il vassoio della cena a Rosetta, uccellino implume della stanza n. 5, immobile e incapace di comunicare, se non con i suoi incredibili occhi color genziana, che alternativamente fissavano i miei e seguivano i movimenti della mano che l’imboccava, quando mi accorsi del nuovo ospite.
Se ne stava là, in fondo al salone, frastornato e diffidente, abbandonato su una sedia a rotelle e attorniato dai parenti che, con ipocrita allegria, cercavano di rendere meno amaro il distacco.
Poi, approfittando dell’imminente distribuzione della cena, figli e nipoti si infilarono in fretta il cappotto e, nel breve attimo di un batter di ciglia, si dileguarono, inghiottiti dal crepuscolo di un febbraio limpido e pungente, che increspava le gelide acque del lago che si intravedeva dalle finestre.
Posate, bicchiere e bavaglio aspettavano Ercole al tavolo di Riccardo, il suo compagno di stanza, con il quale aveva in comune la carrozzina e il fatto di essere gli unici uomini in quella voliera di nonne, che si dibattevano nella vana speranza che una porta dimenticata aperta, le restituisse ad una libertà che non avrebbero mai più potuto afferrare.
Gli unici in grado di incasellare ancora le tessere del tempo e riconoscere il luogo in cui si trovavano erano proprio loro due, ma se ne stavano addomesticati al tavolo, mangiando lentamente e scambiandosi frammenti di ricordi: Riccardo canticchiando a mezza voce “Addio mia bella addio”, Ercole sorseggiando quel dito di vino rosso che il personale ausiliario concedeva a coloro che non avevano problemi di diabete.
Quella sera la mia ostinata Giuseppina mi fece perdere più tempo del solito: la pastina non era abbastanza tiepida, o forse ero io ad aver fretta di avvicinarmi a quel tavolo laggiù?
Comunque non mi parve vero di raggiungere Riccardo, che alla mia battuta: “Posso avere l’onore di augurarti sogni d’oro?” rispondeva sempre con qualche battuta spiritosa.
Fu allora che Ercole, rimasto fino a quel momento a testa bassa, forse intimidito, o forse con l’anima su un altro pianeta, alzò lo sguardo su di me e, accennando un perfetto baciamano mi rispose: “Sono io a sentirmi onorato da tanta gentilezza”.    Me ne innamorai immediatamente.
La dolcezza della sua voce, rassegnata e tuttavia ancora disperatamente desiderosa di farsi ascoltare, la punta di orgoglio nel sollevare il capo e le spalle, a dimostrare di possedere ancora la dignità di uomo libero, mi impedì di dargli del tu e di chiamarlo subito per nome, come facevano tutti lì dentro, per evitare complicazioni di sintassi.
Ma cosa ci faceva un angelo dai capelli di bambagia in questo girone infernale, intriso della sofferenza di tutti quei fantasmi seduti contro al muro e condannati all’incomunicabilità?
Ero troppo turbata per proseguire nella conversazione, perciò salutai in fretta e me ne tornai verso casa, pensando che in fondo era stata la mia vanità a farmi avvicinare a quel nonno, così lucido da potermi far sentire gratificata nella mia missione di crocerossina al servizio della “terza età”, così si dice, perché alle soglie del terzo millennio la parola “vecchio”  appare sconveniente da usare.
“No, devi dedicare il tuo tempo a chi non ti riconosce e non ti parla, ma ripete sempre le stesse frasi come un disco rotto; a coloro che non sanno che giorno sia e sono convinte che domani arriverà il loro marito, morto tanti anni prima, per riportarle a Napoli, dove fa caldo e c’è il mare; devi dedicarti a Natalina, che ogni tanto, in un barlume di lucidità, ti chiede della sua casa e vuole sapere se è tutto in ordine e se non sia il caso di arieggiare le stanze, per togliere quell’umidità che ha fatto ammuffire le pareti là nell’angolo”. Mi ripeteva all’orecchio il mio Grillo parlante.
Così la settimana seguente mi limitai a chiedere alla suora se Ercole si stava abituando alla sua nuova vita di ospite della «Struttura protetta».
“Ha pianto tutti i giorni, ma ora non più”  Mi rispose con voce neutra. Già, perché accade sempre così: “Alcuni entrano con tanta rabbia, convinti di essere stati puniti ingiustamente e determinati nell’idea di farla pagare a tutti; altri piangono per un po’, poi si rassegnano, o meglio: si arrendono a poco a poco, finché staccano del tutto la spina e li hai persi per sempre. Puoi solo abbeverarli e concimarli come faresti con una pianta in via di estinzione, da far sopravvivere  in serra, ma niente di più”.
Mentre imboccavo Rosetta, che sembrava gradire il budino alla vaniglia con biscotto e medicina azzurra sbriciolati insieme, per confonderne il gusto amaro, continuavo a pensare ad Ercole, troppo diverso per essere condannato a quel destino inesorabile: mi convinsi che non avrei soddisfatto il mio narcisismo se, da quel momento, avessi cercato in tutti i modi di tenere desta la sua mente, facendomi raccontare la sua storia e stemperando i ricordi quando gli si fossero inumiditi gli occhi, ma incalzandolo quando mi avesse parlato delle sue avventure di ciclista.
Già, perché Ercole aveva girato il mondo, conquistando premi e medaglie di ogni genere e intervistato da tutti i giornali sportivi. “Non so più quante coppe e quanti album di fotografie conserva mio figlio… Mi hanno scritto perfino dall’America e tante donne mi facevano la corte… anche la padrona di quell’albergo di lusso, lassù in Austria, la quale mi volle donare un maglione nero, confezionato con le sue mani, che conservo ancora in un cassetto del comò. Ma io ho sempre amato soltanto mia moglie, per cinquant’anni; fu lei a salvarmi la vita quella volta che mi sono sentito male: io l’ho curata per sette anni, quando si è ammalata lei… Ma prima di Natale non so cosa sia accaduto: una notte sono caduto dal letto; lei ha chiamato i soccorsi, poi ci hanno portati qui, ma in tre giorni, forse spaventata da questo posto che non conosceva, se n’è andata e mi ha lasciato solo, con tanto rimorso e tanto male qui”. Raccontava piangendo e battendo la mano sul cuore.
Anche quella volta tornai a casa pensando a lui: come avrei desiderato sedermi su una panchina all’ombra, per farmi raccontare tutte quelle storie che nessun nonno mi aveva narrato quando ero piccola…
Passò in fretta un’altra settimana e, quando arrivò di nuovo martedì, mi precipitai alla «Struttura» con un’euforia che di solito non provavo. Arrivai nel salone con qualche minuto di anticipo, ma fui subito rapita da Angela e Gemma per la consueta passeggiata lungo il corridoio e subito dopo fu Rosetta a catturare il mio tempo, così non feci caso all’assenza del mio candido angelo.
Quando tornai nel salone mi resi conto che mancavano molte nonne, decimate dall’influenza; anche Riccardo era di malumore e, alle mie battute rispose con insofferenza, lamentandosi che “ In casa d’altri non si può fare ciò che si vuole”. “Dov’è Ercole?”  Osai finalmente chiedere. “Anche lui a letto. Lo troverai nella seconda stanza  a destra”.
Era tardi, la amica Emma era già pronta alla porta blindata, impaziente di uscire per respirare aria fresca, ma io non avrei potuto andarmene senza salutarlo, così sgattaiolai in punta di piedi verso la stanza numero 7: dormiva, i candidi batuffoli a confondersi con i cuscini, abbandonato in un sonno più vicino all’oblio che al riposo.
Rimasi ad osservarlo, per sincerarmi che respirasse ancora, poi, forse svegliato dai miei pensieri, che si rincorrevano troppo rumorosamente nella mente, aprì gli occhi e mi vide: “Chi sei? Un angelo?” Sì, proprio lui a me! Poi, colto da un’improvvisa intuizione: “Ma oggi è martedì? Allora sei tu!” Esclamò con il sollievo di colui che veniva strappato ad un incubo.
Lo baciai sulla guancia, mentre si scusava della brutta influenza che gli aveva impedito di farsi la barba. “Non importa se pungi, nonno Ercole, sei vivo e mi parli, questo soltanto mi importa” Risposi, senza rendermi conto che gli stavo dando del tu. Furono minuti lunghi un secolo e rapidi come un battito d’ali, nei quali si lamentò della sua tosse e scherzammo sul mio grembiule bianco da «volontaria», impostomi dalla suora “per motivi d’igiene”, che mi trasformava in un’improbabile dottoressa.
“Non so come fare, come potrei prolungare di un po’ questi attimi, che mi danno tanto sollievo, allontanando quel pensiero fisso che mi tormenta da qualche giorno? La prossima volta portami una pallottola!” Sussurrò cambiando improvvisamente registro.
Sperai di non aver capito: “Per farne che?” Risposi con finta indifferenza. “Sono tanto stanco, tanto stanco…” Lo stavo perdendo? Sarebbe piano piano diventato anche lui una povera crisalide, che solo la morte avrebbe trasformato in una splendida farfalla, libera di volare oltre il tempo?
Imprecai, chiedendomi quali oscuri disegni potessero indurre la Divinità che ci aveva generati a giocare così sui sentimenti degli esseri umani; ma subito dopo il mio innato senso di ribellione fece promettere a me stessa che avrei combattuto fino all’ultimo per strappare Ercole al suo destino.
“Ti prego, scommetti con me: sono convinta che il prossimo martedì ti troverò di nuovo nel salone, a tavola con Riccardo, pronti entrambi a farvi augurare sogni d’oro!” Mi parve di notare un guizzo di sfida nei suoi occhi, mentre lo stringevo con cautela, nel timore di spezzare le sue ali così fragili, poi lo salutai, stringendogli le mani, ancora un po’ calde di febbre.
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Oggi è ancora martedì: l’ho sognato tutte le notti, per combattere la Morte che me lo vuole strappare; fra poco preparerò il camice bianco da dottoressa, poi andrò a prelevare la mia amica Emma, che, come al solito, si lamenterà di non poter avere il privilegio di posteggiare nei pressi della «Struttura» e finalmente raggiungerò il mio angelo, perché lo so, avrò vinto io e la metamorfosi non si sarà compiuta. Ercole sarà là ad aspettarmi, così potremo sederci sulla panchina della fantasia, nel giardino fiorito dei ricordi più cari, per colmare entrambi la nostra anima del soffio d’amore che non conosce il tempo, gli anni, le generazioni: io a ritrovare l’infanzia rimpianta, lui a riappacificarsi con la solitudine della vecchiaia.

Luino, 25 marzo 1998

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